Guido Borghi, imprenditore e storico dirigente sportivo, ha segnato un’epoca d’oro per lo sport varesino. Presidente di Varese Calcio e Pallacanestro Varese, ha guidato con passione, sostenuto dalla potenza industriale della famiglia Ignis. In questa intervista esclusiva, Borghi rievoca momenti indimenticabili, tra successi, rimpianti e un legame eterno con la sua città.
Quale effetto ti ha fatto venire qui sul tappeto verde a Frantosa? Da quanto tempo non ci venivi?
Tornare qui è un tuffo nel passato. Sono passati decenni, forse una vita, dall’ultima volta. Ricevere un riconoscimento oggi, dopo la mia presidenza fino al 1979, è una gioia immensa. Questo campo, Frantosa, risveglia ricordi di un’epoca d’oro, quando Varese vibrava di passione sportiva.
Quindi è una soddisfazione anche questa, è importante. Qui c’è uno dei più anziani tifosi del Varese, 87 anni, che dice che gli hai fatto sognare un’intera città.
Quegli anni furono straordinari. La nostra famiglia, con l’Ignis, aveva risorse per sognare in grande. Abbiamo portato Varese in Serie A, vinto campionati con la Pallacanestro, fatto innamorare una città. Vedere tifosi che ancora ricordano con affetto quei momenti è la mia vera vittoria.
Il primo ricordo che ti è venuto quando sei entrato nello stadio con la macchina?
Ho ripensato a un sogno sfumato. Nel 1988, Silvio Berlusconi voleva acquistare il Varese. Io sarei stato presidente, con l’obiettivo di riportarlo subito in Serie A. Non so di chi sia stata la colpa, forse degli azionisti, ma quell’occasione persa brucia ancora.
Cosa significava per te seguire le orme di tuo padre Giovanni nello sport?
Mio padre era un vulcano, un pioniere. Con lui, da giovanissimo, giravo per gli eventi sportivi: ciclismo, basket, calcio. Era un modo per promuovere Ignis, ma anche per trasmettermi una passione. A 19 anni ero presidente del Gruppo Sportivo Ignis, un’eredità che ho portato avanti con orgoglio.
Quale momento sportivo con tuo padre ricordi con più emozione?
Un giorno, negli anni ’60, a una corsa ciclistica Ignis. Papà, entusiasta, discuteva con i corridori, pianificava strategie. Io, ragazzo, lo osservavo ammirato. Quella passione travolgente, quel credere nello sport come unione, mi ha formato. È stato il mio primo vero “allenamento” da dirigente.