L’impronta digitale linguistica

di Andrea Mallamo

La sociolinguista Vera Gheno, ricercatrice dell’Università di Firenze, di recente è stata ospite all’UN Conference della Liuc Business School. Nell’occasione, è stata intervistata dalla trasmissione Varese in Rosa, in onda su Rete55, di cui vi proponiamo alcuni passaggi salienti

di Chiara Milani

 

Fatti, parole e false dicotomie. Di ciò ha parlato la sociolinguista Vera Gheno, ricercatrice dell’Università di Firenze, all’Un Conference promossa dalla Liuc Business School di Castellanza per riflettere, assieme ad altri speaker d’eccezione, su come imparare ad apprendere.

 

Sul rapporto la relazione tra fatti e parole molto spesso si tende a pensare che i primi contino più delle seconde… Perché in realtà non è così?

Non è così perché in realtà noi esseri umani siamo gli unici animali, almeno su questo pianeta, ad avere la parola e ciò fa sì che noi ci relazioniamo con noi stessi, con le altre persone e con il mondo proprio tramite la parola. Quindi, non si tratta di un accessorio, non è qualcosa di collaterale alle nostre vite, ma ne è in un certo senso il centro. Ci sono tutta una serie di attività umane, di organizzazioni che sono possibili soltanto per il fatto che noi abbiamo la parola, Perciò usare male questo strumento potentissimo che abbiamo a disposizione è un po’ un peccato direi, ma forse anche qualcosa di più.

 

In particolare noi viviamo nell’era della comunicazione, eppure spesso usiamo le parole con superficialità o anche cattiveria. Pensiamo agli hate speech sui social media, ma non solo… Allora, perché dovremmo usarle con più consapevolezza, con più responsabilità?

 

Innanzitutto dobbiamo fare un passo indietro. Infatti, non è strano che noi usiamo le parole un po’ come vengono, perché il fatto che noi agiamo con le parole in così tanti contesti pubblici, magari non essendo professionisti della parola, è una cosa abbastanza nuova. Cioè siamo diventati, anche grazie ai social media, dei cosiddetti piccoli personaggi pubblici. Ma nessuno ci ha insegnato a esserlo e quindi diciamo che dobbiamo tutti farci una competenza nuova: fino ad oggi, in qualche modo, infatti non era rilevante per noi usare bene le parole. Non è una questione di Galateo. È prima di tutto una questione di democrazia. Diceva spesso Tullio De Mauro (già Ministro dell’Istruzione, ndr), che è stato mio maestro, che senza una salda competenza della parola praticamente è impossibile essere cittadini di una democrazia che richiede appunto ai suoi membri anche di essere parte attiva della vita della società, della Polis, della città. Ora, come si può fare a migliorare questa competenza, partendo appunto dal presupposto che ce l’abbiamo tutti? Cioè non è qualcosa di esotico, che alcuni hanno come predisposizione e altri invece non la possiedono, bensì è una caratteristica che condividiamo in quanto esseri umani… Forse il primo modo di iniziare a fare più attenzione all’uso delle parole è proprio quello di responsabilizzarsi nel loro impiego, rendendosi conto in modo più consapevole di tutto ciò che succede quando noi non le usiamo bene: quanto possono fare male, quanto possono ferire, magari anche semplicemente osservando quanto feriscono noi. Quindi richiamando il famoso detto “Non fare agli altri ciò che non vuoi che venga fatto a te”. 

 

Si parla spesso di responsabilità sociale d’impresa, ma in questo caso possiamo dire che esiste anche una questione di responsabilità sociale individuale, che passa per esempio attraverso le nostre parole?

Sì, possiamo dirla così.Tra l’altro una delle caratteristiche più intriganti della competenza della parola è che è una delle qualità più personali che abbiamo, visto che non esistono due esseri umani che abbiano lo stesso identico idioletto, cioè lo stesso identico corredo linguistico: ogni persona ha il suo. E’ come un’impronta digitale linguistica. Allo stesso tempo, però, noi condividiamo di questa impronta digitale assolutamente personale un pezzo sufficientemente grande da riuscire a intenderci. Quindi la difficoltà nell’usare la lingua sta anche proprio in questa tensione continua tra proprietà privata e collettiva. D’altro canto, però, quando pensiamo alla comunità, alla società, non possiamo fare a meno di notare che cambia molto velocemente, perciò pure il linguaggio deve trasformarsi di conseguenza. Per una lingua in generale, ogni trasformazione è segno di vitalità. Sempre Tullio De Mauro più o meno nel 2016 diceva che l’italiano sta benissimo, al di là di quello che a volte si sente dire in giro: si parla spesso di una corruzione linguistica, della morte incipiente dell’italiano. Ecco, lui non era d’accordo: diceva che l’italiano schiatta di salute, visto che non è mai stato parlato da così tante persone in Italia e all’estero. Ricordiamo che è una lingua che è diventata patrimonio comune degli italiani intorno agli anni Sessanta del Novecento, quindi come lingua parlata e proprietà collettiva e non solo dell’élite intellettuale è piuttosto giovane. Ciononostante, aggiungeva De Mauro, il vero problema è la salute culturale degli italiani. Su quello ci possiamo fare tutta una serie di riflessioni, perché è vero che forse dovremmo investire un pochino più in termini di stimolazione culturale. Comunque, è assolutamente naturale per una lingua cambiare. Ciò che forse è peculiare nella storia dell’italiano è che rispetto ad altre lingue e sta cambiando molto velocemente, tutto insieme per l’appunto negli ultimi 60 anni, ossia da quando è la lingua degli italiani, mentre è stato immobile per tanti secoli. Consideriamo che noi praticamente nelle grammatiche scolastiche studiamo ancora il canone del Bembo, che è del Cinquecento, con poche modifiche e quindi tutto sta venendo talmente velocemente che è anche normale che le persone si sentano un pochino turbate da questi cambiamenti. Però, forse bisognerebbe ricordarlo: il cambiamento linguistico è sintomo di salute della lingua, non della sua morte.

In foto: Vera Gheno ospite di Varese in Rosa

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