Se l’ing. è pink

di Andrea Mallamo

Raffaella Manzini, direttore della Scuola di Ingegneria industriale dell’Università Carlo Cattaneo di Castellanza, è fresca d’elezione nel Board of Directors della Sefi (European Society for Engineering Education), la più grande organizzazione per l’educazione ingegneristica in Europa

di Chiara Milani

Con la Società europea per l’educazione ingegneristica vi occupate anche di due complessi temi d’attualità, ossia etica e sostenibilità. Ma nella mentalità cosiddetta “quadrata” degli ingegneri, come si possono affrontare questi argomenti?

Devo difendere la categoria il concetto dell’ingegnere chiuso (sorriso, ndr). In realtà qualsiasi ingegnere deve porsi queste questioni per il ruolo sociale che ricopre, perché con le sue decisioni genera comunque un grandissimo impatto sia sulle persone sia sull’ambiente, il territorio, le comunità. Non è facile occuparsi di questi temi e per questo la Sefi si pone specificamente questi temi con altrettanti gruppi di interesse per capire come formare gli ingegneri anche su questi due aspetti. Già devono studiare tanto, come è noto. Il percorso formativo è intenso e molto approfondito. Introdurre questi nuovi elementi non è facile ed è per questo che, con molto piacere, sono coinvolta in questa associazione, perché credo che solo dal confronto tra tante esperienze, nel Nord Europa per esempio le università sono molto avanti da questo punto di vista, si possano arricchire la formazione degli ingegneri anche sotto questi aspetti.

Un altro argomento che affrontate con i suoi colleghi europei è quello della diversity, ossia della diversità. Intensa anche, seppur non soltanto, come diversità di genere. In Italia le materie cosiddette Stem, cioè Scientifiche Tecnologiche Economiche e Matematiche rimangono abbastanza un tabù per le donne… è così anche nel resto d’Europa?

Credo ci sia un fortissimo condizionamento dei modelli culturali che sono dominanti nei vari Paesi e che sono differenti: i Paesi nordici di certo sono molto più avanti nel coinvolgere anche le donne nelle materie cosiddette Stem e in particolare in ingegneria. Il presidente di Sefi è una belga e molte donne sono coinvolte nel board come me. C’è anche un gruppo d’interesse che si occupa dei temi della diversity, anche di genere, che ancora va colmata come gap. Le donne stanno aumentando in ingegneria, nella nostra in Liuc in particolare perché l’indirizzo gestionale attira di più certamente le donne: siamo intorno al 30-40% a livello nazionale, un buon livello per ingegneria, certamente al Nord certi numeri sono più abituali. Nonostante ciò, resta ancora un divario da colmare. Io ho la convinzione che l’arricchimento del percorso dell’ingegnere anche con i temi che abbiamo menzionato prima possa farlo diventare anche più attraente anche per le donne. E’ una mia percezione. Spero sarà così nel futuro.

Ma in chiave postpandemica, perché sarebbe più che mai importante che le donne – le cui condizioni reddittuali sembrano essere peggiorate un po’ ovunque a causa del Covid-19 – siamo presenti in certi contesti scientifici?

La cosa più importante è perché la diversità è una ricchezza. Gruppi di lavoro con una buon livello di diversità sono certamente più produttivi, più creativi, piu efficaci ed efficienti. Il tema delle donne nella difficoltà questa pandemia riguarda proprio il fatto che i modelli dominanti di ruolo hanno visto spesso la donna recedere dalle posizioni dominanti per prendersi cura della famiglia. Proprio a seguito di questa emergenza bisogna fare un’azione molto forte. La prospettiva c’è, perché se vogliamo una crescita della credibilità del lavoro da remoto, può aiutare le donne che tradizionalmente sentono più il compito di occuparsi della famiglia, il che è irrinunciabile in alcune fasi della propria vita. Il lavoro da distanza può sviluppare l’attitudine delle donne anche a occupare ruoli importanti di comando, perché li rende più compatibili con la vita familiare. Poi, quanto più le ragazze entreranno nei percorsi di studio anche ingegneristici, tanto più potranno arricchire pure le componenti di vertice. Ed è indispensabile che ci siano donne in quelle posizioni: tanto tempo fa non consideravo le quote rosa una cosa positiva, mi sembrava una sorta di ghettizzazione di genere. In realtà, però, a volte mi rendo conto, e lo vedo nella mia vita quotidiana di lavoro, che chi ha un’esperienza femminile la può portare ai tavoli decisionali, qualsiasi essa sia, di famiglia o altro. Ciò, oltre ad arricchire tali tavoli, include tematiche che forse un gruppo maschile, non per cattiveria, ma soltanto per mancanza di visione femminile, non porta al tavolo. Quindi, da questo punto di vista, credo davvero che ci sia bisogno della componente femminile.

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