Pronta a tutto [Guarda l’INTERVISTA]

di Andrea Mallamo

In tempi difficili c’è da esser creativi, non preoccupati”: parola di Chiara Montanari, prima italiana a capo di una spedizione in Antartide, intervistata per noi dal game designer bustocco Luca Borsa, per capire come i suoi giochi da bambina l’abbiano aiutata da adulta ad affrontare sfide estreme, come quella odierna

di Luca Borsa

E’ stata la prima italiana a capo di una spedizione in Antartide. Chiara Montanari, ingegnere, alle sfide estreme è dunque abituata. Merito anche della sua infanzia, trascorsa giocando. Una riflessione che, più che mai in questo tempo d’emergenza, può essere preziosa per crescere i nostri bambini.

Chiara, ci racconti della tua esperienza in Antartide e di come la resilienza sia un fattore importante per sopravvivere?

Essere resilienti non è resistere a ciò che è. Essere resilienti significa essere capaci di trasformare e di trasformarci insieme al mondo. Certo, quando il mondo ci chiede variazioni repentine e drammatiche non è facile. L’Antartide ti costringe a un atto di umiltà nei confronti della situazione e questo credo che sia molto salutare. In Antartide incontri la vastità e la forza della natura allo stato puro. E’ quell’immensa Natura che normalmente la nostra prospettiva urbana fa fatica a cogliere. Perché l’uomo fa parte della Natura, eppure ci siamo abituati a considerarla un’estranea, anzi, l’abbiamo resa un oggetto da addomesticare e usare al nostro servizio. L’imprevisto e la crisi ci sconvolgono, eppure ci possono anche aiutare a riconquistare il nostro rapporto con ciò che ci circonda. La crisi ha sempre in sé questo aspetto ambiguo: da una parte la grande difficoltà da affrontare, dall’altra la possibilità di una presa di coscienza importante. Alla mia prima missione in Antartide mi sono innamorata di questo pericoloso continente di ghiaccio.

Perché?

Vivere e lavorare in Antartide è come vivere su un altro pianeta, non soltanto perché siamo confinati a vivere in spazi ristretti e perché lì tutto si congela all’istante, ma soprattutto perché tutta la nostra esperienza è continuamente sfidata da una marea di imprevisti.

Che cosa significa fare il capo di una missione in un ambiente estremo?

E’ come essere il capitano di una nave di pirati che viaggia senza motore in un mare in tempesta. Un ambiente estremo ci propone molteplici sfide e non lascia molto spazio per commettere errori. La base Concordia, per esempio, si trova in cima al Plateau Antartico: è il luogo più freddo del pianeta. Siamo in cima alla calotta polare, l’altitudine percepita è di 4.000 metri e le temperature sono estreme (da meno 50°C in estate, ai meno 80°C in inverno). Qui viviamo in 70-80 persone e gli spazi sono stretti.

Qualche esempio di imprevisto?

Di “avventure” ne ho avute molte: dalla spedizione in cui la nostra base è stata sabotata e saccheggiata, alla missione in cui la nostra nave è rimasta bloccata nei ghiacci e siamo rimasti senza carburante (il diario di quella spedizione è poi diventato un libro, pubblicato nel 2015 da Mondadori: “Cronache dai ghiacci. 90 giorni in Antartide”, ndr).

Alla luce di tutto ciò, quale ruolo ha il gioco nella tua vita professionale e personale?

Se davvero c’è una differenza tra il giocare e il “fare sul serio” io non l’ho mai capita. Da piccola vivevo, semplicemente. Poi ho saputo che quella cosa si poteva chiamare gioco e mi piaceva. Evidentemente, non ho mai smesso di vivere giocando o di giocare vivendo.

Crescendo, questa attitudine come può aiutare?

Il mondo contemporaneo sta diventando sempre più complesso ed interconnesso, quindi ci sta mettendo di nuovo di fronte al cambiamento estremo. Si tratta di avere a che fare con l’incertezza e con l’ignoto, come accadeva probabilmente all’uomo primitivo che esplorava territori sconosciuti o come accade a noi ancora oggi, sia che si vada in Antartide, sia che ci si confronti con qualcosa che ci appare estremamente nuovo.

Come l’emergenza Covid19?

La crisi che stiamo vivendo è grande: ci mette alla prova come individui e come società Convogliare questa nostra energia verso direzioni inedite, perfino le più profonde, è possibile, e sta già accadendo. Chissà, oltre al dolore e alla sofferenza, potrebbe anche stupirci e farci ricordare che siamo molto di più di quello che ci siamo abituati a credere di essere. Nelle parole del grande Leonard Cohen: “There is a crack in everything, that’s how the light gets in” (Anthem, 1992).

in foto: Chiara Montanari

Guarda l’intervista al game designer Luca Borsa, autore dell’intervista: https://varesemese.it/le-interviste-di-varesemese/le-interviste-di-varesemese-luca-borsa/

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