Gender gap, che costo!

di Andrea Mallamo

La valorizzazione della diversità di genere ha dimostrato risultati importanti in termini economico reddituali. A spiegarlo è Anna Gervasoni, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università Cattaneo di Castellanza e direttore di Aifi (Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt)

di Anna Gervasoni

Dida: a sinistra una slide della ricerca Private Capital, Human capital condotta da Aifi (per Piera: metti pagina 9 del documento che ti ho inoltrato); a destra, Anna Gervasoni durante la presentazione  (da archivio settembre 2020)

Abbiamo visto durante il lockdown che le donne sono state capaci di gestire l’emergenza Covid-19 riuscendo a far studiare i figli, a lavorare e a occuparsi della casa, come se fosse tutto nella normalità delle cose. Eppure, c’è ancora un gender gap che è difficile da colmare nonostante le campagne continue per allineare retribuzioni, percorsi professionali e per permettere anche alle donne di ricoprire ruoli istituzionali e manageriali. Al di là di ogni rivendicazione di genere, è acclarato che la valorizzazione di competenze e profili professionali femminili può portare un grande contributo allo sviluppo delle imprese e delle professioni.

Il private equity fa bene all’occupazione femminile

Vediamo un esempio. Lo scorso settembre, durante il convegno annuale di AIFI e Kpmg, è stata presentata una ricerca dedicata alle risorse umane e alle politiche Esg (Environmental, social, governance, ossia Ambiente, sociale e buon governo) nelle società in portafoglio al private equity. Lo studio, che ha fornito anche informazioni utili sulla compagine femminile nelle imprese, è stato pensato perché le aziende sono fatte soprattutto di persone e queste sono la più grande risorsa per la società. Nella survey è stato analizzato un campione significativo di aziende in portafoglio ai fondi fino al 2019 o disinvestite nei tre anni precedenti per un totale di 130 operazioni effettuate da operatori domestici e internazionali. I risultati danno una fotografia di come le imprese oggi si compongono e mostrano come l’ingresso di un fondo porta a una crescita del numero medio di dipendenti e in questa crescita c’è una grande attenzione all’elemento femminile. Nelle società target del private equity infatti la crescita dell’organico è pari a quasi il 90% nel periodo di permanenza del fondo, mediamente pari a 5 anni; la composizione femminile è del 41%, più elevata nelle imprese con più di 200 addetti in cui raggiunge il 63%.

Quel Mezzogiorno così poco femminile

Questo a livello generale, però se guardiamo alla geografia del nostro Paese, le percentuali cambiano e scendono man mano che ci si sposta verso il Mezzogiorno. Al Nord, infatti, siamo a una presenza femminile nelle aziende, mediamente pari al 43%, al centro al 32% e al sud si scende fino al 28%. Questo rappresenta un’enorme perdita di potenziale di competenze e professionalità.

Una su sette ce la fa, ma com’è dura la salita…

Se guardiamo ai dati elaborati dalla survey che parlano dei dirigenti, vediamo come su 7, solo una è donna, circa il 16% del totale. Nei consigli di amministrazione su 6 componenti abbiamo una sola presenza femminile, ovvero il 9%. Livelli molto bassi, ma che stanno velocemente cambiando, segno che l’attenzione verso il riequilibrio di genere e la ricerca di complementarità sta crescendo. Sensibilità di gran lunga più alta la troviamo nelle imprese che sono oggetto di operazioni di private equity poste in essere da fondi internazionali. Ciò deriva da un preciso indirizzo che in questi mesi è fatto proprio anche dai nostri operatori italiani di aumentare l’attenzione verso le best practices Esg.

Investire nelle donne conviene. Anche al portafoglio

Le politiche Esg dedicano un ampio focus sul capitale umano e stanno ricoprendo un ruolo sempre più importante anche nel determinare le scelte degli investitori. I fattori ambientali, sociali e di buon governo sono sempre più ricercati e implementati da operatori che vogliono investire nelle società per farle crescere e internazionalizzare, lavorando così alla creazione di valore. E in questo percorso la valorizzazione della diversità di genere ha dimostrato risultati importanti in termini di risultati economico reddituali. Questo punto è diventato talmente importante che a livello internazionale sono state redatte delle linee guida con best practice da adottare nei processi di investimento.

Da un nuovo equilibrio sociale può nascere quello economico

Anche in Italia l’anno scorso l’associazione di categoria ha dato delle linee guida e in questo nuovo paradigma le donne vengono sostenute nella crescita professionale, così da consentire un migliore equilibrio tra lavoro e famiglia. È proprio partendo da un nuovo equilibrio sociale che si può affermare un nuovo equilibrio economico in cui inserire i nostri migliori talenti professionali. 

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