Mentre gli studenti sono in vacanza, Elena Ferrari, tra le 50 donne italiane più influenti nel mondo tecnologico, ci parla dell’Internet of Things da docente d’Informatica dell’Università dell’Insubria e da mamma…
di Chiara Milani
Non chiamatela Nerd. Elena Ferrari, docente d’Informatica dell’Università degli Studi dell’Insubria, è quanto di più lontano dallo stereotipo del programmatore solitario, dal viso pallido e gli occhi rossi, che sta sempre chiuso in casa. Mogli e madre di due figli, attualmente in congedo di maternità per il secondo, è stata premiata all’inizio dell’anno a Milano tra le 50 donne italiane più influenti del mondo digitale. Un universo sempre più attuale, che ci racconta tra luci e ombre, da un punto di vista molto umano.
Il campo dell’Informatica offre molte opportunità di lavoro in un momento in cui, in generale, scarseggiano. Eppure le ragazze che lo scelgono continuano ad essere poche…
Noi abbiamo fatto di tutto per incoraggiarle, ma rimangono il 10% degli studenti alla laurea triennale e spariscono per quella magistrale, nonostante le iscrizioni alla nostra facoltà siano in crescita, fino a valutare la possibilità del numero chiuso. E’ frustrante, ma è una statistica in linea con la situazione nazionale e internazionale. Io sono arrivata alla conclusione che bisogna partire molto prima che dalle superiori, come facciamo attualmente. Certi stereotipi a quel punto sono già radicati. Dovremmo forse iniziare dalle elementari, quando le mamme incoraggiano le figlie a fare altro, perché pensano che costruire robot non sia per loro…
Avete mai pensato di educare le mamme, anziché le figlie?
No, non ci abbiamo mai pensato, ma in effetti potrebbe funzionare. Chissà, magari se facessimo un bootcamp… Ora che me lo dice, questa estate rifletterò su come potremmo fare.
Nel frattempo, c’è da dire che – nella società in cui i giovani amano gli influencer – tutti coloro che sono diventati famosi per aver inventato qualcosa nel campo delle Computer Science sono uomini: pensiamo agli ideatori di Microsoft, Apple, Facebook, Youtube…
Sì, le loro biografie sono di grande ispirazione e consiglio a tutti di leggerle, ma purtroppo mancano modelli di riferimento al femminile, anche se questo può essere un ramo molto creativo. Pensiamo per esempio alle App: non è necessario trasferirsi in Silicon Valley per inventarne una e ci si può sbizzarrire nel trovare nuove soluzioni a qualsiasi tipo di esigenza della società moderna.
Ecco, la conciliazione famiglia-lavoro potrebbe essere uno dei vantaggi di questo settore per le ragazze.
Certo. Oltre al fatto che le percentuali di chi trova lavoro sono altissime, ci sono aziende, anche nel Varesotto, che incentivano lo smart working, anche se hanno problemi a trovare personale, perché soffrono la concorrenza di Milano, dove ci sono i grandi colossi, e la Svizzera, dove vengono pagati meglio. Al punto che stanno pensando di aprire filiali al Sud, dove c’è meno concorrenza per le risorse umane.
Da un lato dunque si vogliono incentivare le donne fin da piccole ad appassionarsi al digitale, dall’altro viene visto con preoccupazione il fatto che i giovani passino sempre più tempo davanti a uno schermo, anziché a socializzare all’aria aperta, pure ora che arriva la bella stagione. In tutto questo, i genitori spesso si sentono lasciati soli e impreparati a gestire una situazione che non esisteva nella loro infanzia…
Sì, è vero. Forse sarebbe compito della scuola organizzare incontri anche su questo tema e non soltanto su anoressia e cyberbullismo perché, al pari dell’italiano e dell’inglese, l’informatica sta diventando pervasiva: non puoi ignorarla, come se la questione non esistesse.
Da mamma molto digitale, che consiglio si sente di dare agli altri genitori?
Io stessa voglio che mio figlio esca. Ma evito di proibirgli l’uso dei videogiochi, perché da sempre se vieti qualcosa a un ragazzino, lui farà di tutto per farla lo stesso di nascosto. Fin da piccolo, dunque, nell’educazione del mio figlio maggiore ho cercato di puntare sulla consapevolezza delle opportunità, ma anche dei pericoli della rete, spiegandogli che non tutti sono amici e non bisogna dare tutte le proprie informazioni, che hanno un grande valore. C’è un bilanciamento da tenere tra la comodità e la privacy. Magari dare un’informazione in più mi comporta un piccolo vantaggio, ma aumenta la mia profilazione. E’ un po’ come sapere che mangiare troppi dolci mi farà ingrassare. Ciò vale anche per gli adulti.
Dal suo osservatorio privilegiato, può dirci verso dove stiamo andando secondo lei?
Verso l’Internet of Things. Per capirci, verso un mondo di auto che si guidano da sole e che, senza che tu le comperi o abbia un garage dove tenerle posteggiate, ti vengono a prendere a casa quando ne hai bisogno, magari senza neanche che tu lo chieda, perché incrociano i propri dati con la tua agenda.
Ecco, lei che non è nativa digitale e che dunque ha vissuto la gioventù senza tutta questa tecnologia, non è in fondo un po’ spaventata da tale scenario? Non teme che, come ha detto Stephen Hawking, “il successo nel creare l’intelligenza artificiale potrebbe essere il più grande evento nella storia dell’umanità, ma sfortunatamente potrebbe essere anche l’ultimo”?
No, sono a favore dello sviluppo, perché penso che nell’Ottocento si vivesse peggio e si morisse prima. Inoltre, non credo possibile che l’uomo possa davvero creare un software che abbia il sopravvento su di lui: ci sarà sempre un bottone da schiacciare per fermare il tutto. Questa, ovviamente, è soltanto una mia opinione personale. Come lo è il fatto che, prima a poi, dopo l’”ubriacatura” da digitale – in cui si lavora da casa, si fanno acquisti da casa e si chatta da casa – si tornerà ad uscire, perché l’uomo è un animale sociale. Insomma, un po’ come è avvenuto per il cibo: dopo l’epoca degli alimenti industriali, ora si è tornati a cercare il biologico.
In foto: Elena Ferrari, docente d’Informatica dell’Università dell’Insubria