Intervista a tutto campo a Philippe Daverio – storico d’arte, docente, saggista, politico e personaggio televisivo che frequenta da sempre Varese – per capire l’attualità del messaggio di Leonardo da Vinci a 500 anni dalla morte del genio del Rinascimento: “Serve un Piano estetico territoriale”
di Chiara Milani
Per l’incendio divampato a Notre-Dame l’hanno interpellato in molti. Philippe Daverio, storico d’arte italiano con cittadinanza francese, frequenta da sempre Varese, dove ha anche studiato alla scuola europea. In occasione dell’anno leonardiano promosso per commemorare i 500 anni della morte del genio rinascimentale, avvenuta il 2 maggio 1519, lo abbiamo incontrato nel suo studio milanese.
Qual è l’eredità più grande che Leonardo ci ha lasciato?
Lui è un caso di assoluto equivoco, perché appena morto viene dimenticato e viene riscoperto nel diciannovesimo secolo. Dietro c’è il suo carattere, da bastian contrario. Ciò perché, insolitamente per un artista dell’epoca, era di buona famiglia, ma era nato fuori matrimonio. Quindi, il suo essere anarchico lo porta a essere aristotelico, il suo essere aristotelico lo porta a essere sperimentatore e l’essere sperimentatore lo porta a essere ingegnere. Questa è la trafila del suo comportamento e ciò lo rende uomo atipico rispetto l’epoca.
Potremmo dunque dire che è il Disruptor del Rinascimento?
In un qualche modo, sì. Cioè, è uno che va controcorrente. Di fronte ad ogni affermazione lui dice: “e anche no”. Mette in dubbio tutte le certezze della cultura dell’epoca. Questa è la cosa interessante e lo fa su tanti elementi: la prospettiva, la percezione, il dibattito se sia più importante la scultura o la pittura…
Lei ha citato la prospettiva: il paesaggio era un elemento importante nelle sue opere…
E’ uno dei primi a farlo, per questo fatto teorico: quello che mi interessa avere è un background. Cioè, ho un davanti, un centro e un fondo. Perché è la teoria del vedere. Poi lì si aprono tutti i misteri, come lo sfondo della Gioconda. In realtà è la fantasia che domina, ma quello che è sicuro è che l’Adda, come esperienza tecnica, gli serve per fare il dipinto.
Il paesaggio ci riporta un po’ a Varese, che lei conosce bene. Per vivere un nuovo Rinascimento di quest’asse che va da Milano a Lugano e che ha sempre avuto nel paesaggio un punto di forza, con la Versailles del capoluogo lombardo, secondo lei che cosa servirebbe?
Se oggi ci fosse Leonardo andrebbe via subito. Guardi, i miei antenati sono di Varese, come dice il mio cognome. Non so quale sia la ricetta, ma di certo una presa di coscienza maggiore del proprio ruolo sarebbe importante. Cosa che non è avvenuta ancora. Io mi ricordo il Varesotto come uno dei posti più belli del mondo nella mia infanzia. Oggi non lo è più. Un’attenzione programmata territoriale non è mai esplosa. Ci sono alcuni elementi che potrebbero portare a una poetica nuova, come alla Schiranna. Ci sono paesini ancora utilmente conservati, come Azzate. Altri, assassinati.
Si può invertire la tendenza?
Non lo so. Manca un’élite di pensiero. Un Piano estetico territoriale, fatto con una cultura evoluta e avanzata, non c’è ancora. E probabilmente avrebbe potuto essere questo uno dei compiti della Regione, che dovrebbe assumere una responsabilità sull’urbanistica.
Il Governatore, Attilio Fontana, è di Varese…
Conosce il territorio. Però è un lavoro talmente ciclopico… io gli ho suggerito di fare una sorta di Stati generali dell’estetica urbana e di farlo in barba alla normativa nazionale. Per cambiare rotta.
Dunque, lei vorrebbe l’autonomia estetica della Lombardia?
Sì. Ispirandosi ai nostri vecchi centri storici, con le case tutte attaccate e di un colore simile. Per fortuna c’è un ritorno all’acquisto di queste abitazione, anziché del villino in periferia che ha soltanto sottratto terreno all’agricoltura a km 0, che oggi va tanto di moda. Sono avvenuti dei piccoli miracoli: Varese in centro era morta 40 anni fa, oggi è più viva. Che cosa vuole dire? Che l’urbanistica ha delle regole che si possono codificare e che tutti gli errori degli ultimi quarant’anni vanno rimessi in discussione.
Qualcosa si muove. Milano, dopo l’Expo, sta vivendo una sorta di Rinascimento…
Qui ho diritto di fare il trombone, visto che ho 70 anni. Milano è cambiata perché abbiamo progettato 30 anni fa la città di oggi: questi sono i tempi dell’Urbanistica. Allora feci vedere al consiglio comunale che c’era una cintura di ruggine delle fabbriche che loro potevano decidere di trasformare in una cintura di verde, inventando sette nuovi parchi, ognuno con delle costruzioni dentro. Spero che ancor oggi si possa lanciare un progetto di riestetizzazione dell’Italia.
Nessuno l’ha mai chiamata a Varese?
Volevano che facessi il sindaco, ero stato molto lusingato dalla proposta, ma è un lavoro che si fa a quarant’anni. Invece, oggi, la funzione che dovrebbe svolgere una serie di persone con una certa sensibilità sulla cosa sarebbe quella di proiettare delle ipotesi di lavoro.
Che cosa si servirebbe?
Innanzitutto un piano drastico, che richiederebbe un’intelligenza progettuale che purtroppo non esiste. Si tratta del premio di abbattimento: se butti giù un orrore di 200 metri cubi hai il diritto di entrare in un progetto di ricostruzione di 600 metri cubi, ma in un’area già predisegnata. Poi son fatti tuoi il pagarlo. Ma io ti garantisco il prestito a interesse zero, poi calcola tu se ti conviene avere la metratura avere il triplo della metratura al quadruplo del valore al metro o no.
Siamo tornati, 500 anni dopo, al bisogno di un disruptor...
Sì, esatto. Ma è difficile. Non so che cosa potrebbe succedere qualora si rismontasse l’Italia. Io non sono del tutto contrario. Ho un diritto più degli altri a dirlo, in quanto la colpa dell’Unità è di un mio parente, Francesco Daverio. Dico di disfare l’Italia perché va fatta l’Europa, che oggi ha due opzioni: una è quella franco-tedesca, in cui gli altri siano lì ad obbedire, e l’altra è l’Europa regionale, che sarebbe con 55-60 regioni, come gli Stati Uniti. Potremmo mettere i soli al posto delle stelle.