Fabrizio Maggi, direttore del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale di Circolo e professore associato presso il dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università dell’insubria, parla delle ultime frontiere della lotta al Covid-19
E’ balzato agli onori delle cronache nazionali per aver scoperto la variante “varesina” del Covid19: direttore del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale di Circolo e professore associato presso il dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università dell’insubria, Fabrizio Maggi si è trasferito a Varese da 6 mesi, dopo aver pubblicato oltre 200 lavori su prestigiose riviste scientifiche internazionali, Senza contare che sono oltre 25 anni che si occupa di ricerca con un network in tutto il mondo.
Innanzitutto, dobbiamo preoccuparci per la variante che ha trovato?
E’ una variante molto interessante perché presenta delle mutazioni particolari, alcune già presenti in altre varianti e altre uniche. Per se la domanda è se ci sia da preoccuparsi dire al momento no, nel senso che troveremo sempre più varianti negli studi che facciamo e questa non dovrebbe avere problemi per quanto riguarda la risposta alla vaccinazione, perché è assente una mutazione che al momento è considerata importante da questo punto di vista. Ce ne sono però altre per le quali gli studi sono assolutamente necessarie.
Parlando proprio delle sfide che avete davanti, lei e i suoi colleghi avete in mano quella principale, non soltanto per l’Italia…
Le prospettive sono assolutamente importanti, anche perché l’attività che stiamo svolgendo è quella di monitorare l’andamento delle varianti ed è sicuramente una sfida perché ci permetterà e ci sta già permettendo di capire come il virus sta evolvendo e quindi quali sono le mutazioni che sta attuando. Evidentemente, individuare queste mutazioni e capire quale sia il loro significato ci permetterà anche d’intervenire poi nell’ambito di migliorare la vaccinazione, di avere delle terapie anche più appropriate quindi la sfida è proprio quella di proseguire in questo ambito di studio, che va sicuramente implementato e diciamo incrementato anche dal punto di vista del numero di sequenze da farsi.
Capita però che ci siano persone che hanno effettuato il tampone e che sono risultate negative: si è scoperto però poi dal test sierologico che avevano avuto il Covid. O altri pazienti che pur risultando negativi dal tampone avevano tutti i sintomi anche gravi… Non può esserci un modo più sicuro per effettuare il test?
Che ci siano dei soggetti che fanno il tampone che risulta negativo e poi col tempo scoprono di avere gli anticorpi rientra nell’assoluta normalità dell’infezione, che nella maggior parte delle persone non crea grossi problemi. Poi ci sono anche dei casi un po’ particolari, delle eccezioni, in cui a volte davvero fare il tampone può risultare negativo in un soggetto che magari ha una sintomatologia importante, che ricorda ovviamente il Covid: in questi casi quello che si fa è utilizzare altri campioni biologici, in particolare quelli profondi provenienti dall’apparato respiratorio e poi ci sono studi molto interessanti sull’utilizzo della saliva come un marcatore, perché ci sono studi che dimostrano che la quantità di virus presente nella saliva spesso è più elevata rispetto a quella che si trova nel tampone.
Proprio all’Insubria era anche stato messo a punto un test veloce. Speriamo che presto arrivino anche le certificazioni necessarie al suo utilizzo.