di Chiara Milani
Il New York Times l’ha definito uno dei più inventivi attivisti del cibo. Daniele De Michele, in arte Donpasta, è un personaggio poliedrico: dj, economista e, appunto, cultore del cibo delle nonne d’Italia.
Da quando ci siamo conosciuti, un paio di anni fa al Premio Filippo Bossi a Bodio Lomnago, è davvero cambiato il mondo, anche dal punto di vista enogastronomico…
Eh, sì, è cambiato il mondo per tutti e diciamo in modo probabilmente molto tragico. Però nel mondo della cucina sono cambiate tante cose, probabilmente la più affascinante è che la gente ha ripreso ad fare il pane e la pasta che aveva smesso di fare in casa. Questo è un dato interessante. Si pensava che non si avesse più tempo o voglia di andare in cucina, invece forse questo stare chiusi in casa ha permesso anche di capire quanto possa essere bello cucinare.
C’è, appunto, anche qualche risvolto positivo in tutta questa tragedia. Del resto, lo sappiamo, nel primo lockdown erano anche andati esauriti farina e lievito… A proposito del cibo casalingo, l’ultima volta avevamo parlato de I villani, il tuo film documentario che nel 2018 avevi presentato al Festival cinematografico di Venezia e che è un viaggio attraverso il nostro Paese alla scoperta proprio della cucina italiana, quella delle nonne. Un’opera che ora tu hai reso un podcast, un po’ come la radio o le fiabe parlate di una volta…
Diciamo che il lavoro fatto sulla cucina italiana è stato un lavoro molto appassionante per me, visto che ho girato per anni tutta l’Italia, ma veramente tutta, per andare a incontrare le nonnine e i contadini che mi cucinasse da qualcosa dentro casa. Lo facevo perché avevo l’impressione che bisognava in un certo senso conservare qualcosa che rischiava di perdersi. Avevamo ormai tutte queste mode di piatti internazionali, di grandi cuochi, e invece si ometteva o comunque si considerava irrilevante la cucina che mangiamo ogni giorno, che è poi quella che ci emoziona. Anche questa cosa mi ha fatto pensare che era importante andare in/giro a censire in un certo senso le vecchie ricette. Quindi, avevo archivio infinito d’interviste molto buone per me, nel senso che andavo a mangiare [sorriso, ndr]. Quindi assaggiavo delle cose incredibili e ho potuto scrivere un grande libro, nel senso di gigantesco. Ho fatto un film e poi ho appunto fatto anche il podcast, che si chiama La Repubblica del soffritto, che è proprio legato a questa Repubblica nazionale italiana. Sono 22 puntate da 50 minuti e l’idea che ci siamo fatti è che bisognasse vivere un po’ la radio come negli anni Cinquanta e quindi di lasciarsi affabulare in un certo senso da un modo di raccontare la cucina e le storie un po’ come se stessimo attorno un caminetto, quindi con questa radiolina accesa, con i rumori dei cucchiai, dei bollori, dei fritti… Diciamo che è chiaro che può essere in contraddizione con i tempi attuali. Però il lockdown ci ha obbligato anche a ripensare al nostro rapporto col tempo, quindi anche a rivedere il nostro uso dei media, per farne uno diverso.
Tra l’altro la generazione delle nonne d’Italia che tu racconti è quella in via d’estinzione, anche a causa del Covid-19, di cui tu parli proprio nel tuo ultimo lavoro...
Sì, in questo dramma affettivo che stiamo vivendo ce n’è anche un culturale enorme. Sarebbe importante in questo momento cercare di capire come sono riusciti a superare tragedie enormi, come la Seconda guerra mondiale, le migrazioni, la disoccupazione, i terremoti…Il ruolo della voce storica la fa una staffetta partigiana, che prova a raccontarmi come il rapporto con il dramma deve tale da portarci a unirci, come popolo, come nazione, e a superare insieme le difficoltà che stiamo vivendo, che sono molto gravi, ma che sappiamo dalla storia che possono essere attraversate e combattute soltanto insieme.