Dopo aver raccolto le dichiarazioni del presidente del Gruppo 24 Ore, Giorgio Fossa, che auspica una formazione forte aiutare le aziende di Varesotto e Alto Milanese a trovare personale qualificato, pubblichiamo le interviste al suo successore al vertice di Fondimpresa, Bruno Scuotto, e al direttore di questo fondo interprofessionale, Elvio Mauri, varesino
di Chiara Milani
Sono a capo del fondo interprofessionale per la formazione continua di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Abbiamo incontrato presidente e direttore di Fondimpresa: il primo, Bruno Scuotto, è il successore del gallaratese Giorgio Fossa alla presidenza di questo organismo associativo di diritto privato e il secondo, Elvio Mauri, conosce bene il nostro territorio, essendo stato amministratore delegato di Spi (Servizi e promozioni industriali Srl), la società di servizi alle imprese dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese.
Rispetto ai temi Industry 4.0, con i nuovi decreti governativi, come sta cambiando la formazione per il mondo delle aziende e per i manager?
B.S. Il mondo sta cambiando tantissimo perché la realtà di questo 4.0 finalmente sta venendo a galla. Non sta nelle nuove tecnologie, ma nell’adeguamento dell’innovazione dei processi delle aziende.
E.M. Questo sottende necessariamente a una nuova formazione di nuove figure professionali non soltanto nel dialogo uomo-macchina, ma nell’organizzazione aziendale, che è completamente cambiata perché è cambiato il mondo del lavoro.
Quali sono le aziende che davvero riescono a fare formazione qualificata in modo continuativo: c’è un taglio minimo di grandezza, una dislocazione geografica, insomma un identikit di queste imprese?
B.S. Ovvio che più si va su dimensioni di economia diffusa e più c’è una difficoltà culturale. La piccola azienda in Italia è piccola davvero perché per 3 milioni e mezzo di partita Iva su 4 milioni e mezzo non supera i 5 dipendenti e quindi è chiaro che su una struttura così piccola non è facile. Quindi la dimensione è sicuramente un elemento. L’altro è geografico: è ovvio che dove insistono attività industriali e produttive manifatturiere c’è un’abitudine. Quantomeno: noi cerchiamo di spostarla sulla formazione innovativa e non obbligatoria per legge, però c’è un utilizzo più diffuso nelle aree più industrializzate.
E. M. E’ chiaro che la dimensione e la cultura aziendale fanno spesso la differenza. Talvolta il territorio incide. In alcuni oggi fare impresa bene è veramente un atto eroico, perché hai voglia a parlare di 4.0 se non hai il campo per ricevere i dati: bisogna avere anche la brutale franchezza, l’onestà di riconoscere che è così. Quindi è chiaro che è ormai una sfida d’insieme, di territorio. Non può più essere la sfida del singolo, che pure è fondamentale: dato 100 oggi fa 90, ma per arrivare a fare 100 hai bisogno di un 10 che è di contesto.
Quanto la formazione finanziata può oggi essere competitiva sul mercato rispetto alla consulenza tradizionale e quali possono essere i margini di miglioramento?
B.S. I margini ci sono e sono importanti. La vera svolta è la formazione, intesa come la reale esigenza o di livellamento rispetto alle richieste del mercato, quando penso più al macro e quindi all’impresa nel suo sistema, oppure, guardando alle persone, di un adeguamento delle proprie conoscenze e competenze alle richieste non solo esterne, ma anche all’interno dell’impresa per cui si lavora. Cioè può diventare una vera formazione se la richiesta é spontanea, istintiva, percepita come reale esigenza dalle persone. Se questo è, non c’è paragone con alcun tipo di percorso consulenziale o di alternativa. Diventa la chiave per potersi migliorare. Bisogna dunque uscire dai canoni della formazione intesa come elemento sufficiente per poter adempiere a certe situazioni, ma entrare nella cultura di una formazione che possa servire a se stessi, ai propri sistemi, al miglioramento delle strutture che si compongono.
E.M. Aggiungo che, quando si cominciava a parlare di formazione finanziata, un sacco di aziende di consulenza si approcciavano a queste cose con un po’ di sano snobismo. Oggi anche le Big Four tendono a finanziare le attività formative usando i fondi interprofessionali, che sostanzialmente hanno un po’ una duplice di natura: da un lato una grande possibilità di saving, perché l’azienda versa dei contributi che hanno un vincolo di destino… cosa che, tra l’altro, dovrebbere ricordarsi il governo nel momento in cui ci toglie una parte di questi soldini per rimandarli sul piano della fiscalità generale; dall’altro, tocca alle parti orientare un pochino, aiutare, supportare… oggi parliamo di Industry 4.0 e sono ormai 4 anni che Fondimpresa, quando ancora del Piano Calenda non si parlava, tutti gli anni mette 10 milioni del conto di sistema a beneficio delle aziende che investono in formazione e innovazione, per aiutarle ad essere pari a un mondo che va a 200 all’ora.
Infine, ma non ultimo, parliamo delle politiche attive del lavoro, tema su cui voi insistete molto…
B.S. Sì, non mi stancherò mai di dirlo: di politiche attive non se ne interessa nessuno seriamente in Italia e noi siamo pronti ad essere attori, perché abbiamo struttura, cultura, potenzialità e rete per potercene interessare. Ci sono troppe persone che, non facendo formazione e non utilizzando le leve delle competenze, sono ai margini. Ci sono persone che vengono qui e che hanno nel proprio bagaglio culturale più di una laurea, grandissime competenze, e dunque non possono restare così… quindi c’è tutta una situazione di altri, di invisibili, che vanno portati al centro: noi abbiamo tutta la possibilità di farlo e altri non lo fanno.
E. M. Ci serve che il Governo si fidi. Oggi infatti c’è un incredibile mismatch tra profili richiesti dalle imprese che non hanno un nome e un cognome e persone che non hanno lavoro. Noi vogliamo riuscire a dedicare risorse su questa partita, proprio per aiutare questo Paese, le imprese, a diminuire la mancata corrispondenza tra domanda e offerta. E’ un peccato che non si provi ad affrontare il toro prendendolo per le corna. E’ il tema del futuro.