Anna Danesi, consigliera di parità della Provincia di Varese, traccia il profilo di chi bussa alla porta del suo ufficio e spiega le difficoltà incontrate nelle aziende del territorio
di Chiara Milani
Si occupa di tutte quelle che sono le politiche di pari opportunità tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Un ruolo strategico, in chiave presente e futura, quello della consigliera di parità. Eppure questa figura non è ancora conosciuta come dovrebbe. Come conferma Anna Danesi, che svolge questa funzione sul territorio.
Molti, sentendo la parola “consigliera” pensano a un ruolo politico, mentre è istituzionale…
Assolutamente: noi siamo incardinati fisicamente all’interno della Provincia di Varese perché offriamo sostegno sul territorio, però è un ruolo istituzionale, quindi siamo nominati con decreto del ministero del lavoro. In particolare, siamo tecnici, quindi non abbiamo nessun legame politico. Siamo interlocutori di tutte le parti sociali che operano nel mondo del lavoro.
Non siete neanche un sindacato, però aiutate le donne in difficoltà…
Sì, diciamo che le attività sono prevalentemente due: una di tipo promozionale, formativa e informativa su quelle che sono tutte le politiche di genere, sempre nell’ambito del lavoro, e un ruolo invece proprio di assistenza di lavoratrici e lavoratori, anche se di questi ultimi ce ne sono molti meno che si rivolgono a noi perché ritengono di aver subito delle discriminazioni di genere sul luogo di lavoro.
Quindi è un servizio aperto a tutti, però bussano alla vostra porta soprattutto le donne…
Eh sì, il dato è praticamente al 100%, almeno sulla provincia di Varese.
Qual è dunque l’identikit del vostro utente?
Dei casi che abbiamo ricevuto l’anno scorso, 9 su 10 riguardano la conciliazione lavoro e famiglia. Poi ci sono altre situazioni legate a molestie sul luogo di lavoro, ma numericamente assai inferiori, anche perché probabilmente vengono poco denunciate. Si rivolge infatti a noi molto spesso la donna che ha figli in età scolare o che è rientrata dalla maternità o magari è diventata una famiglia monogenitoriale. Il grande problema è l’orario di lavoro, anche all’interno della giornata, soprattutto per chi lavora su turni.
Ovviamente non vale per tutti i lavori, però la pandemia ha spinto molto lo smart working. Ciò ha migliorato o peggiorato la situazione?
Allora, diciamo che lo smart working è uno strumento molto delicato sotto il profilo del genere: su questo bisogna stare molto attenti. Perché se è vero che, nel momento di massima pandemia, quindi mi riferisco all’anno 2020, è stato sicuramente utile, visto che diversamente non si poteva fare, sotto il profilo del genere è un po’ rischioso vederlo come strumento atto a conciliare esigenze lavorative e familiari per le donne. Perché, lasciandole a casa a lavorare, c’è un grosso rischio di ghettizzazione. Può essere molto utile, per esempio perché abbatte i tempi di percorrenza, ma non deve essere visto soltanto per le donne. Ricordiamoci che se uno lavora da casa, è vero che un po’ magari può organizzarsi, ma certamente non è che mentre lavora cura i propri figli: su questo bisogna fare serie riflessioni, quando verrà regolamentato. Siamo ancora in una fase emergenziale, quindi la regolamentazione precisa ancora non c’è: bisognerà tenere un occhio aperto e proprio sulle questioni di genere.
Intanto, però, dal suo osservatorio, in che modo quello che stiamo vivendo ha influito sulle richieste che arrivano al vostro ufficio?
Devo dire che le richieste pervenute sono state strettamente connesse alle attività scolastiche, quindi quando c’era la didattica distanza l’esigenza era quella di poter fare smart working. Quando poi si è ripreso l’attivita scolastica, si è tornati ad avere un problema più strettamente legato alla distribuzione degli orari di lavoro, quindi del part-time. Poi ci sono state lavoratrici, come quelle a contatto col pubblico, che non hanno mai potuto fare smart working e che quindi, avendo i figli in Dad, chiedevano di poter utilizzare ferie e permessi, anche non retribuiti.
A fronte di tutto ciò, secondo lei, ricorrenze come la Giornata internazionale delle donne hanno ancora senso nel 2022?
Sì, hanno senso perché è una sorta di momento di riflessione, però non bisogna fermarsi all’8 marzo, perché le problematiche le viviamo tutti i giorni e quindi questa giornata deve essere un momento d’incontro e di sintesi su ciò che è stato fatto e che si può fare. Però bisogna lavorare sempre su queste tematiche e farlo soprattutto nei nostri territori, nelle piccole realtà, e cercare di portare avanti una politica di genere anche nelle scuole. Punto, quest’ultimo, su cui insisto molto, perché i ragazzi sono i cittadini del futuro, i datori di lavoro del futuro, per cui è soprattutto importante che loro abbiano ben chiare queste tematiche.
Lei ha detto “soprattutto nei nostri territori”. C’è una peculiarità del Varesotto?
Diciamo che, a volte, si fa un po’ fatica a far capire che certe situazioni creano discriminazioni di genere. Spesso infatti non c’è un intento discriminante, ma questo è un dato che non dovrebbe rilevare e che non rileva. Quindi, si prende un po’ il problema come qualcosa di personale, cosa che non è. Ci sono situazioni che oggettivamente creano disparità di trattamento, incidono sulle pari opportunità e questo è un po’ difficile a volte da far comprendere. Soprattutto in un contesto di aziende, magari anche molto grandi, che nascono come attività padronali e che poi hanno avuto grande espansione, diventando realtà molto importanti. E un peccato. Per questo bisogna intervenire: mi piacerebbe fare incontri anche nelle imprese, perché siamo tutti dalla stessa parte.
Dalle sue parole, mi pare di capire che, rispetto magari a dove ci sono multinazionali, qui ci sia ancora una mentalità più “provinciale”, che non è ancora così ricettiva rispetto a queste tematiche…
Sì, perché le multinazionali hanno compreso da tempo che una situazione di svantaggio, di discriminazione, di molestia, crea sicuramente un danno anche l’azienda, perché aumenta l’assenteismo, mentre se la gente lavora con piacere la produttività di cresce, quindi chiaramente queste tematiche stanno molto a cuore all’azienda proprio anche in riferimento alla produttività. A volte invece si fa fatica a far comprendere questo tipo di ragionamento all’interno di aziende non multinazionali… ecco perché è importante far comprendere che siamo tutti dalla stessa parte: in un luogo di lavoro dove se si lavora bene, se io sono assente un anno per mettere al mondo un figlio, che peraltro è una questione sociale e non personale vista a denatalità, sono comunque una risorsa, posso dare ancora tanto. Se ciò si comprende, credo che sia un vantaggio per tutti.
Ph: Phyrexian, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0 via Wikimedia Commons