Secondo uno studio dell’Università dell’Insubria, l’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di infezione. Abbiamo chiesto di approfondire l’argomento per i nostri lettori a Giovanni Veronesi, professore di statistica medica dell’Università dell’Insubria e primo autore del lavoro del Centro Epimed, pubblicato sulla rivista Occupational & Environmental Medicine
di Giovanni Veronesi
E’ l’intera popolazione adulta della città di Varese, quella coinvolta nel nostro studio. Cioè, per l’esattezza, 62.848 persone. Il risultato è una tesi di grande attualità elaborata dal sottoscritto con Marco Ferrario, oltre a Sara De Matteis, Giuseppe Calori e Nicola Pepe. Il nostro team di Epimed, il Centro di Epidemiologia e Medicina Preventiva dell’Università dell’Insubria, ha infatti scoperto che l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico può aumentare il rischio di infezione da SARS-CoV-2.
I primi dubbi
Fin dall’inizio del periodo di pandemia è stato osservato, in Italia e all’estero, che le aree più esposte all’inquinamento atmosferico erano anche quelle con tassi di contagio più elevati, ma queste osservazioni erano basate principalmente sulle prime fasi della pandemia e su dati che non facevano riferimento ai singoli individui, bensì erano aggregati per territorio.
Più inquinanti, più infezioni
Il nostro studio è ora basato sui singoli residenti adulti di Varese, seguiti dall’inizio dell’emergenza sanitaria, a febbraio 2020, fino a marzo 2021. I dati sanitari sono stati forniti dall’Osservatorio Epidemiologico di Regione Lombardia e dall’Agenzia Regionale Aria, mentre la società Arianet ha messo a disposizione i dati sull’esposizione ambientale di lungo periodo. A fronte di ciò, la ricerca segnala un aumento del 5 per cento nel tasso di infezione per incremento di 1 microgrammo/metrocubo nell’esposizione a media annua di PM2.5, corrispondente a 294 ulteriori casi di positività da Covid-19 per 100mila abitanti/anno. Relazioni simili valgono per altri inquinanti, come PM10, NO e NO2. Questi valori sono ancora più sorprendenti se si considera che l’esposizione media annua a questi fattori nel territorio considerato per l’anno 2018 (usato per le analisi) era sostanzialmente inferiore ai limiti di legge per la media annua di tali inquinanti.
La nuova minaccia
I risultati sono conseguenti ad alcune analisi di sensibilità, come l’utilizzo delle medie stagionali di inquinanti in luogo di quella annuale; l’esclusione di individui che vivono in una casa di cura residenziale; e l’ulteriore aggiustamento per l’indice di deprivazione e propensione alla mobilità con mezzi pubblici. Certo, permangono alcune limitazioni, dal momento che non è stato possibile tenere conto della mobilità, dell’interazione sociale, dell’umidità, della temperatura e di alcune condizioni cliniche, come la malattia mentale e le malattie renali. Va detto che il nostro studio da solo non è sufficiente per stabilire un nesso di causa-effetto tra inquinamento e malattia. Tuttavia, se il futuro di SARS-CoV-2 è quello di diventare endemico nella popolazione, i risultati già oggi indicano che l’infezione è l’ennesima minaccia di salute per persone che già soffrono di maggiori tassi di malattie respiratorie e cardiovascolari legati allo smog. Perciò è auspicabile che i governi incrementino senza ulteriori attese i loro sforzi per contenere e ridurre i livelli di inquinamento atmosferico, anche come misura di contenimento dell’impatto del Covid19 sulla salute pubblica.