Nicola Poloni, medico psichiatra che svolge attività di ricerca all’Università degli Studi dell’Insubria, consiglia come prepararsi al nuovo inizio
di Nicola Poloni
All’inizio è stata la paura del contagio, il timore di ammalarsi o di veder ammalarsi i propri cari più fragili e vulnerabili. Più o meno suggestionati da quanto avvenuto in Cina qualche settimana prima, ognuno di noi ha accettato le prescrizioni e le limitazioni imposte dal Governo senza nessuna resistenza. Addirittura, alcuni esercizi commerciali hanno deciso di chiudere i battenti prima di essere obbligati a farlo e molti si sono ritirati in casa di propria iniziativa.
L’ansia come alleato
L’ansia rispetto a quello che avrebbe potuto accadere è stato un buon alleato di chi doveva indicarci gli strumenti da adottare per sconfiggere il virus, anche se la nostra vita è stata sconvolta nelle sue abitudini e la libertà di ogni individuo è stata, in maniera inusuale e improvvisa, limitata.
Il trauma da lockdown
Poi è arrivato l’isolamento, diverso per ognuno di noi ma, nel suo lento prolungarsi, comunque potenzialmente traumatico.
C’è chi si è ammalato e ha vissuto, lontano dai suoi affetti, l’isolamento ospedaliero e l’esperienza limite del ricovero in terapia intensiva. Chi ha trascorso la malattia in quarantena domiciliare. E chi, pur sentendosi bene, ha dovuto rimanere chiuso in casa, ascoltando impotente il drammatico resoconto quotidiano dei numeri della pandemia. C’è poi chi ha dovuto continuare a lavorare e improvvisamente confrontarsi con una malattia insidiosa, contagiosa e altamente letale.
In maniera differente, l’isolamento forzato è diventato la principale causa di un crescente disagio psichico, che qualcuno manifesta e qualcun altro tende, invece, a tenere chiuso dentro di sé.
Più passa il tempo, più si moltiplicano i fantasmi
Nella vita quotidiana l’ansia nasce dal timore per il futuro e si assorbe, a volte con maggiore efficacia a volte in maniera meno riuscita, nell’esperienza di poter fare qualcosa che ci consenta di verificare che siamo in grado di risolvere problemi e ottenere risultati.
L’isolamento blocca temporaneamente tale possibilità di azione concreta e possiamo solamente immaginare e progettare quello che faremo per evitare che le nostre paure possano diventare realtà: più il tempo passa senza poter ripartire, più i fantasmi rischiano di farsi vicini e minacciosi.
Liberi di pensare
E’ anche vero, però, che, mai come in questo periodo, così unico e particolare, abbiamo avuto il tempo e la libertà di immaginare e pensare, potendosi così liberare la creatività individuale che a lungo è stata imprigionata nei forsennati ritmi quotidiani della nostra “vita normale”.
Senza contare la riscoperta di alcuni valori fondanti del nostro vivere sociale, come quello della solidarietà.
Adesso che ci avviciniamo alla ripartenza, abbiamo una grande occasione che sarebbe sciocco farci sfuggire.
E’ una maratona, non una gara di velocità
Forse si potrebbe utilizzare una metafora sportiva per immaginare quale possa essere la ripartenza migliore.
Prima di tutto, dobbiamo stare attenti a non fare una falsa partenza: non dobbiamo farci trovare pronti, magari distanziati, ma tutti sulla stessa linea, per scattare dai blocchi allo start, perché non abbiamo di fronte a noi una gara di velocità nella quale vincerà chi arriverà prima e corriamo il rischio di doverci nuovamente fermare e tornare in isolamento.
L’immagine che mi piace pensare è invece quella delle partenze delle grandi maratone, dove non si compete contro gli altri, ma contro sé stessi e i propri limiti, assieme a tante altre persone con le quali si percorrono pezzi di strada insieme, aiutandosi a tener duro nei momenti di difficoltà. La partenza sarà quindi scaglionata: alcuni partiranno per primi, altri più avanti, sicuramente distanziati, ma con la possibilità di incontrarsi lungo il percorso. Quello che conta, però, è che partiranno tutti e tutti avranno la stessa strada da percorrere, ognuno alla propria velocità, con le proprie risorse e capacità e ognuno portando il proprio contributo alla vita che ci aspetta.
Se chiedi aiuto non vuol dire che sei malato
L’ansia e la depressione, prima ancora che sintomi di una patologia psichiatrica, sono vissuti umani che siamo costretti ad affrontare nel corso di tutta la nostra esistenza e che aiutano a costruirci come persone: in questa complicata e drammatica circostanza è importante che ognuno di noi affronti e cerchi di superare il difficile momento, senza sentirsi malato anche quando è costretto a ricorrere all’aiuto di uno specialista perché gli sembra di non farcela da solo. Chiedere aiuto non significa essere malati, deboli o fragili, ma semplicemente sfruttare un’opportunità in più per ricavare da una crisi potenzialmente in grado di fermarci nuove risorse che ci possono aiutare a scoprire nuove potenzialità.
in foto: Nicola Poloni