In occasione dell’8 marzo, abbiamo chiesto una riflessione sui luoghi comuni che ancora creano disparità di genere a Paola Biavaschi, impegnata a dirigere a maggio il corso sul cyberbullismo che, con il sostegno del Soroptimist di Varese, si terrà all’Università dell’Insubria per prevenire il fenomeno
di Paola Biavaschi
Il sonno della ragione
“Un’abitudine è qualcosa che puoi fare senza pensare”, sosteneva con saggezza Frank A. Clark. La profondità di questo semplice assunto ci spiega così tanto di noi ed è l’interpretazione tanto banale quanto autentica di molto del male che ci circonda. Parafrasando Clark, si potrebbe altrettanto giustamente affermare che “un’abitudine è qualcosa che puoi dire senza pensare”: e in quel non-luogo in cui si agisce gestualmente o verbalmente senza riflettere, stanno le radici del male. “Non pensare” è un balsamo per la maggior parte delle persone, è un sollievo che permette il riposo dall’estenuante compito di interpretare la realtà con la propria testa, attività ingrata, a volte priva di soddisfazioni, oltretutto in grado di produrre, almeno al principio, dolore di fronte alla consapevolezza della sofferenza altrui. Il “non pensiero”, al contrario, è un’attività molto accattivante: oggi si materializza in lunghe gite presso i centri commerciali e ore infinite trascorse al cellulare, non tanto a parlare con qualcuno in carne e ossa, quanto a chattare o, persino, a curiosare nelle vite altrui.
Combustibile inesauribile, che alimenta e viene a sua volta alimentato dalla pratica di “staccare la spina” al pensiero consapevole, sono gli stereotipi: convinzioni fisse, rigide, ripetitive che abbiamo sentito innumerevoli volte e che andiamo ripetendo, riempiendo così gli spazi mentali vuoti di altro vuoto. Affermava Proust, senza esagerazioni, che “di solito viviamo con il nostro essere ridotto al minimo, e la maggior parte delle nostre facoltà restano addormentate, riposando sull’abitudine, che sa quel che c’è da fare e non ha bisogno di loro”.
Lo stereotipo viaggia sul web
Ripetere convinzioni stereotipate ad alta voce è una sicurezza: in primo luogo aggirano la complessità della vita e la molteplicità delle esperienze, semplificando o addirittura azzerando le differenze; inoltre, una volta pronunciati, con tutta probabilità saranno condivisi da un gran numero di persone, e, a volte, con la loro miserabile aura di trasgressione rispetto al politically correct, fanno sentire più audace chi li riproduce. Per lo più, tuttavia, infondono la sicurezza del conosciuto, permettono di non lasciare la vecchia via, in cerca di una strada che richiede impegno e coraggio. Quando poi si può ripetere lo stereotipo in una grande piazza virtuale, come quella che oggi ci offre il web, il timore di ogni minima vergogna nel “metterci la faccia” anche quando si pronuncia una battuta stereotipata di una certa aggressività, viene completamente meno. Diceva Cesare Beccaria, in un notissimo passaggio di un contributo pubblicato su Il Caffè, che pochissimi si sentono in grado di scrivere un libro voluminoso, ma tutti pensano di poter essere giornalisti, perché la produzione di un breve articolo sembra, erroneamente, alla portata di tutti. Figuratevi un post o un tweet; tutti coloro che hanno una minima alfabetizzazione digitale ritengono di poter gestire un blog o partecipare a una chat. Con gli esiti che si possono toccare con mano.
Gli stereotipi hanno sempre fatto parte integrante di ogni società e sono alla base del quieto conformismo che finisce per livellare anche i salti generazionali, tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, una nuova consapevolezza aveva informato le società occidentali: gli stereotipi sui popoli erano stati la base comune, ingenuamente ritenuta innocua, della rovinosa esperienza bellica e delle più grandi tragedie di massa del ventesimo secolo. Razzismo e discriminazioni nascevano dall’ingigantirsi, tramite il fuoco della propaganda e dei nuovi mezzi massmediatici, di convinzioni prive di fondamento, spesso assurde, ma rassicuranti.
Una battaglia da vincere
Abbiamo dedicato la seconda metà del Novecento a combattere gli stereotipi razziali e di genere: oggi, non solo la battaglia non è conclusa, ma è divenuta più dura e infida. E’ nato un nuovo strumento comunicativo: tramite internet, siamo potenzialmente tutti protagonisti, siamo tutti potenzialmente operatori dell’informazione, potendo interagire con un numero elevatissimo di altre persone. Dopo molti decenni, torna il primato della parola, ma in una forma mai immaginata: frasi corte, ad effetto, corredate da molte immagini, che hanno il compito di colpire e di attirare; video brevi, il tutto ben infarcito di offese. In questo contesto, gli stereotipi, in particolare quelli di genere, si moltiplicano, di nuovo, come era successo un secolo fa.
Il pericolo per i più giovani di fronte agli stereotipi di genere
E’ un momento pericoloso quello che stiamo vivendo, da tanti punti di vista: il nuovo potentissimo strumento massmediatico non ha realmente filtri adeguati per proteggere i bambini e gli adolescenti, e gli adulti non hanno il tempo e l’energia di sorvegliare i propri figli. Spesso gli adulti stessi non hanno gli strumenti per reagire agli stereotipi, che si trasformano in un battito di ciglia in violenza verbale e/o fisica.
La discriminazione di genere è più ambigua di ogni altra: serpeggiante nella stragrande maggioranza delle culture del presente e del passato, ha infettato anche uomini di cultura, filosofi, letterati, religiosi e scienziati, giornalisti e politici, invadendo in passato (e speriamo solo in passato) anche il mondo di coloro la cui professione avrebbe dovuto essere proprio pensare, e dimostrando la straordinaria potenza degli stereotipi, così profondamente radicati da comportarsi come un virus inestirpabile.
Quelli di genere sono particolarmente infidi perché contagiano tutti, donne e uomini, con la forza della parola: vengono succhiati con il latte materno e deglutiti con il pane delle mense scolastiche, seminati insieme all’erba degli stadi, miscelati all’acqua delle piscine, impastati nelle torte di compleanno delle feste. Stereotipi apparentemente innocui, come quello che vede le donne pessime guidatrici, o terribilmente dannosi, come quelli che le dipingono ontologicamente negate per la fisica o la matematica o come quelli per cui le donne che hanno fatto strada devono sempre il successo a un uomo che ne ha riconosciuto e conosciuto “altre virtù”.
Le vittime sono anche gli uomini
Gli stereotipi sono infiniti e per lo più raccapriccianti nella loro semplice demenzialità, ma lo stereotipo di genere più pericoloso e sbagliato è quello per cui vittime degli stereotipi stessi sono solo le donne. E’ tutto il contrario: le vere vittime nel ventunesimo secolo sono gli uomini. Ingabbiati in ruoli in cui non possono più stare, investiti di un primato che non può più esistere, non riconosciuti nella propria umanità ed emotività, i più fragili non reggono il colpo e nella migliore delle ipotesi cadono in pesanti crisi di identità, nella peggiore ricorrono alla violenza, in una spirale in cui il carnefice si fa vittima e viceversa.
La soluzione nella prevenzione
Ma qui, proprio in queste ultime considerazione, apparentemente molto negative, sta invece il germoglio della soluzione, la chiave del rebus: i semi degli stereotipi non vanno mai piantati o vanno eradicati nella più tenera età. La soluzione è la formazione consapevole e il primo passo la formazione dei formatori. Il destino sta in buona parte nelle loro mani e basterebbe questo per comprendere l’essenzialità del ruolo dei docenti della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria all’interno della società. Un grande lavoro di ricerca e di didattica su questo fronte è stato intrapreso da qualche anno presso l’Università dell’Insubria, all’interno del Corso di laurea di Scienze della Comunicazione e tramite corsi di alta formazione pensati ad hoc per gli operatori dell’informazione in erba o già attivi (giornalisti, personale del settore socio sanitario, addetti alla comunicazione aziendale e istituzionale) e per gli insegnanti, gli animatori, gli allenatori sportivi: ultimo nato un corso sul cyberbullismo che avrà luogo a maggio, proprio nella prospettiva di genere, sostenuto dal Soroptimist di Varese e finalizzato a insegnare a gestire in modo pratico la prevenzione del fenomeno.
Ogni mezzo di comunicazione in realtà è neutro: il mondo del web può produrre consapevolezza condivisa e valori democratici, se i naviganti sono consapevoli. Se, come giustamente affermava Goya “il sonno della ragione genera mostri”, il risveglio della ragione e dell’abitudine a pensare può solo generare buoni frutti.