Paola Biavaschi, docente di deontologia e diritto dell’Informazione dell’Università degli Studi dell’Insubria e delegata alle Pari opportunità e alle Politiche di genere per il Dipartimento di Scienze umane e dell’innovazione per il territorio, parla del sottile confine tra umorismo e haters
di Paola Biavaschi
Il soffitto di cristallo si sta lentamente infrangendo: troppo lentamente – siamo tutti d’accordo – ma anche inesorabilmente. Non è una rivoluzione, è una marcia silenziosa. Tanto lavoro, spesso senza scalpore, per dimostrare di poter svolgere anche compiti duri, stressanti, senza orario, nei ruoli apicali.
Gli stereotipi duri da abbattere
Ma abbattere gli stereotipi è un lavoro ancora più duro: per ogni donna che raggiunge, magari con sforzi immani, una determinata posizione elevata, la domanda di rito che la accompagna dietro le spalle è inevitabilmente: “Di chi è figlia? Di chi è sorella? Di chi è moglie? Di chi è amante?”. E, nel caso in cui la donna in questione sia andata oltre la posizione del padre, del fratello, dello zio, del nonno o del compagno, a quel punto, al danno si aggiunge pure la beffa, perché sul viso di molti si legge quel velo di disapprovazione per il non aver la suddetta compiuto quel mitico “passo indietro” o per non essere rimasta opportunamente “nell’ombra”, accontentandosi solo dell’essere “bella”. Casa di bambola non è certo un’opera del passato e i ricordi sanremesi dello scorso anno non sono solamente echi ibseniani.
Presa in giro? Sei qualcuno!
Certo, i bocconi amari sono ancora tanti, però il cammino continua, e aumentano le donne che si ritrovano al centro dell’interesse mediatico per il loro lavoro: l’essere “arrivati”, sin dall’antichità, si misura con il termometro della satira. Se sei oggetto di satira, sei “qualcuno”: tutti ti conoscono e ridono di te come antidoto dell’Hybris, della tracotanza del potere che i greci ritenevano un male umano e anche una fonte inesauribile di irritazione da parte degli dei (con conseguente tragedia dietro l’angolo).
La satira è una nobile arte, intrecciata con l’informazione, che rappresenta un elemento essenziale della democrazia: solamente in democrazia, infatti, ci si può sbellicare dalle risate, prendendo in giro i potenti. Non a caso il primo sintomo della perdita dei diritti fondamentali è la scomparsa o l’uccisione della satira. Questo significa che, se le donne arrivano a ricoprire ruoli tanto conosciuti e ambìti da essere oggetto di parodia, non possono che esserne molto liete e significa anche che devono prepararsi: saranno prese in giro per le loro gaffes, per i loro atteggiamenti, per le contraddizioni nel comportamento politico o professionale, per non essersi dimostrate intelligenti e anche per l’aspetto fisico. Le vignette satiriche o gli sketch comici che esagerano e deridono la bassa statura, la pinguedine, la gobba, il naso, le orecchie, l’abbigliamento, i difetti di pronuncia di uomini politici, imprenditori, giornalisti o scienziati divertono i cittadini di ogni Stato realmente libero. Quindi anche le donne non possono pretendere un differente trattamento, etichettando ogni presa in giro come sessismo: sarebbe sessismo l’opposto, un ipocrita passo indietro per evitare in modo farisaico ogni comportamento in odore di politically incorrect.
Burle sì, odio no
Per questo ben vengano le burle basate sull’eccesso di rossetto, su pettinature improponibili o abiti di cattivo gusto: dai travestimenti di Maurizio Crozza, che sferzano donne e uomini con lo stesso appuntito pungiglione, alla comicità più pop di Striscia la notizia, passando per le tante brillanti imitatrici che oggi punteggiano il mondo dello spettacolo.
Quello che invece non può tollerarsi sono le campagne degli hater sul web: in questo caso non vi è più la satira, che ha lo scopo con la sua irriverenza di controllare e di ammonire moralmente i potenti, ma vi è solo l’odio, l’espressione più cupa dell’invidia, dell’insofferenza, della rabbia, della discriminazione sessuale o razziale, sotto l’apparente scudo dell’anonimato che offre la Rete. In questo caso non vi è arte e non vi è informazione, non vi è etica né deontologia: solamente gli istinti più brutali dell’uomo che si sente minacciato “dall’altro”, nel caso in cui quest’altro sia una persona di pelle, sesso, etnia o religione diverse. E’ il terrore di perdere terreno, di vedersi sorpassare da chi per centinaia o addirittura migliaia di anni è stato sottomesso o emarginato. E così il caso Giovanna Botteri, preparatissima e acuta giornalista della Rai, a mio avviso, fa scuola: ben venga la satira – è chiaro a tutti che l’intelligente inviata non ha grande interesse per la messa in piega o per gli abiti firmati -, ma il body shaming di cui è stata vittima è un’altra cosa: la prima ci informa sul fatto che, se Dio vuole, anche una donna malvestita e per lo più spettinata può cogliere il frutto del suo duro lavoro, scalando i vertici del mondo giornalistico; la campagna degli hater, invece, ci fa comprendere quanta opprimente ignoranza ancora ci circondi, ma soprattutto quanta paura susciti ancora oggi una donna in gamba che abbatte gli stereotipi.
Il web e la società civile
Eppure, a vero dire, non riesco a evitare di cogliere un segnale positivo persino in questo: se sale la febbre dell’intolleranza tra le frange marginali degli internauti, questa violenza verbale ci dice che qualcosa sta veramente cambiando, che si stanno facendo reali passi in avanti, tali da scatenare fastidio e irritazione tra chi come biglietto da visita ha solo l’odio. Ora il compito della società civile è quello di intervenire: educare nelle scuole, prevenire tra gli adulti, identificare e isolare gli hater, sanzionare con serietà e severità quando serve, così che il cemento si solidifichi e l’edificio della parità di genere, che tanta fatica ci è costato, diventi solido.