C’é qualcosa di nuovo oggi nel sole. A spiegarlo è monsignor Claudio Livetti, decano di Busto Arsizio, che riflette sul delicato momento storico che stiamo vivendo tra vaccini, pericoli e gesti nobili
di monsignor Claudio Livetti
Una sospirata liberazione
Le nuove possibilità di affrontare la situazione del coronavirus, con l’arrivo del vaccino, ci libereranno dalla tirannia mediatica, più pesante della dittatura politico/sanitaria. Speriamo di non vederci più spiattellare le tre cifre fatidiche degli infettati, dei guariti, dei morti. Basta al carosello di virologi, infettivologi, epidemiologi, diventati “star” di questa nostra temperie storica, in cui siamo stati chiusi in casa pieni di paura e ansiosi di avere una bussola. Si sperava che la bussola venisse dai loro responsi e invece litigavano tra loro, si lanciavano accuse, si contraddicevano sull’uso delle mascherine, sulla necessità dei tamponi, sugli asintomatici, sulle cure da somministrare, sulla tempistica dell’arrivo dei vaccini. Non vedremo più narici spalancate affinché una figura umana nascosta dietro una protezione igienica possa infilarci dentro un bastoncino e strofinare il bordo del cervello, per poter dire: ”Sei negativo, puoi tornare a scuola o in ufficio” oppure: ”Sei positivo, trasforma la tua casa in un lazzaretto”. Spero anche che la cartina geografica della mia Italia torni al tricolore nazionale, dimenticando il giallo, l’arancione e il rosso.
Rinforzare gli argini
Ci sono cascate addosso due sciagure in contemporanea: la pandemia e i cicloni o le trombe d’aria che hanno ingrossato torrenti e fiumi, invadendo villaggi montani e città di pianura. Occorre rinforzare gli argini. Non mi riferisco a quelli fisici o sanitari o economici. Io penso soprattutto a quelli umani, quelli capaci di creare una vita buona. Purtroppo, dalla “spagnola” del 1918 i nostri antenati impararono ben poco e solo dopo pochi anni tornarono ad accapigliarsi e uccidersi. Noi, vedendo infranti i nostri sogni, sapremo aprire i nostri occhi e mettere i piedi per terra? I limiti sono argini importanti per vivere in maniera saggia la vita. I “no”, i “non puoi”, i “non devi” sono uno strumento educativo nell’età della crescita, per preservare il cuore umano dal rischio del delirio di onnipotenza. È più facile però arginare un fiume che un essere umano. Il filosofo Paul Ricoeur affermava che l’essere umano è unico, perché non solo è sproporzionato, ma è la sproporzione stessa: sproporzione tra finito e infinito. Mentre la crescita nella conoscenza ha creato grandi progressi culturali, tecnici, artistici, terapeutici … purtroppo il cammino sfrenato e sregolato della libertà trasgressiva ha provocato il malessere sociale, morale e anche quello sanitario. La libertà va arginata, altrimenti provoca danni irreparabili.
Aprirsi alla solidarietà
Il virus dell’individualismo ha creato esseri isolati, autoreferenziali, vogliosi di affermarsi, di sfruttare, di soggiogare, di chiudersi nelle quattro mura che davano l’illusione di stare bene ed essere sicuri.
Si deve recuperare un sano personalismo solidale che faccia dire: ”Siccome ci sei tu, ci sono anch’io, e noi due insieme, sommando le nostre debolezze, possiamo diventare una forza”. La persona matura sa di non essere nulla se non con gli altri. Si è sulla stessa barca, insieme si può arrivare in porto o andare a picco.
Il tempo della pandemia ha suscitato forme di solidarietà lussureggianti come la foresta amazzonica, espresse nell’eroico servizio di medici e infermieri e nella vicinanza di tantissimi volontari alle persone sole o bisognose. È stato bello vedere i due carabinieri andati in casa del novantaquattrenne tutto solo, che cercava qualcuno con cui brindare a Capodanno. Ciò che più mi ha commosso è il fatto di Jordi, il ragazzo tredicenne adottato da una famiglia di Milano quando aveva cinque anni. Aveva chiesto ai genitori come regalo natalizio di poter donare cibo ai senzatetto. Essi pensavano di confezionare qualche pacco viveri da portare alla Caritas. Jordi ha voluto di più: benché soltanto tredicenne volle trascorrere una notte con l’unità mobile dei City Angels, portando personalmente aiuto ai clochard. In ogni pacco con il cibo ha voluto mettere anche letterine scritte di suo pugno, in cui ricordava di avere lui pure vissuto in strada per cinque anni, nel freddo e nella fame, alla periferia di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, prima di trovare la famiglia adottiva. Un gesto nobile che merita ogni lode.