Marta Morazzoni, vincitrice nel 1997 del Premio Campiello con Il caso Courrier e finalista nel 1988 con L’invenzione della verità e nel 1992 con Casa materna, ci parla di donne e scrittura. Lo fa in occasione di FilosofArti, il festival della filosofia e in calendario fino al 9 marzo tra Gallarate e Busto Arsizio
di Chiara Milani
La sua personale “nota segreta” è ciò a cui sta lavorando ora: “E’ sempre un’incognita. Non diciamo niente”, si limita a rispondere. Per il resto, Marta Morazzoni, classe 1950, milanese di nascita, ma gallaratese “d’adozione”, si racconta.
All’incontro arriva in auto perché poi deve andare a Milano. Sennò – ci assicura – sarebbe venuta in bici. Come fa sempre, nonostante il freddo e il brutto incidente avuto nel 2015. “La bicicletta è uno strumento di grande civiltà”, ci dice, ricordando di essere andata per otto anni su due ruote all’Itc Tosi di Busto Arsizio, dove ha insegnato. Così come all’Itc-Itpa Gadda-Rosselli a Gallarate e al magistrale Manzoni a Varese.
Dai suoi esordi di successo con Longanesi nel 1986, con La ragazza col turbante poi tradotta in nove lingue, all’ultima opera del 2014, Il fuoco di Jeanne dedicato a Giovanna d’Arco, i suoi libri hanno visto spesso donne in copertina. Come La nota segreta, pubblicato nel 2010, che dà il titolo all’incontro con l’autore al Melo di Gallarate.
Lei spesso nei suoi libri ha scritto di protagoniste donne. Come mai questa scelta?
Se devo dire la verità, le scelte non sono così preordinate da un’intenzione. Ci sono dei personaggi, delle figure che saltano un pochino all’occhio. Se parliamo della Paola Pietra, che è la protagonista de La nota segreta, mi ci sono imbattuta nella maniera più casuale. Mi è arrivata per suggerimento di un amico che aveva letto la sua storia nel libro di Giuseppe Rovani. Quindi è un’eredità che ricevo da un grande scrittore dell’Ottocento un po’ dimenticato. Mi è sembrata un soggetto che si scriveva da sé, tanto era forte e singolare. Ripercorre le vicende un po’ triste di queste ragazze monacate per forza, ma questa si risolve con uno scatto d’orgoglio e di verità personale molto forte: questa persona che scappa da un convento, poi torna e si consegna all’inquisizione di Roma per ottenere lo scioglimento del suo voto. E’ veramente una cosa grandiosa, dentro cui s’inserisce una storia d’amore che muove un po’ le fila di questo percorso. Insomma, il personaggio si è imposto.
Anche Giovanna d’Arco non ha bisogno di presentazioni, no?
Devo dire che l’impaccio su Giovanna d’Arco è che ne ha fin troppe di presentazioni e quindi ho scelto di non scrivere un romanzo, ma di lasciar parlare i fatti storici o le supposizioni intorno a questo personaggio. Così non ero tenuta a inventare nulla, ma a ripercorrere questa strada – che ho anche ripercorso fisicamente, facendo i viaggi che hanno accompagnato la scrittura di questo libro – in modo che la sua voce – se c’è stata – arrivasse direttamente al lettore attraverso la sua autenticità o presunta tale.
Dalle protagoniste alle autrici. Esiste a sua avviso una “penna rosa”, cioè una scrittura femminile con una sensibilità diversa nello scrivere rispetto a quella maschile, oppure no?
Dipende da chi scrive. Quando si ha a che fare davvero con grandi scrittori, tutto quello che è la componente della sensibilità è tirata dentro nell’universo dello scrivere. Ci sono scritture, anche di donne, che non sono al femminile, ma raccontano in modo potente l’universo delle donne. E’ diverso, credo.
Lei ha insegnato per tanti anni nelle scuole del Varesotto. Se dovesse dare un consiglio a una ragazza che sogna di fare la scrittrice nell’epoca del digitale, che cosa le direbbe?
Se uno ha voglia di farlo, lo fa. Perché è lo strumento apparentemente più alla portata di tutti. Si tratta di saper leggere e saper scrivere, nel senso strutturale, sintattico, grammaticale della parola. Se uno ha qualche cosa da dire, trova il modo di dirlo. Io credo che non ci siano suggerimenti, se non essere molto franchi e molto onesti con se stessi.
Questi nuovi strumenti, lei come li vive?
Se parliamo del computer io lo uso. Se mi parla di cose come Facebook, non le uso. Uso la parte strumentale di certa modernità perché mi fa molto comodo. Poi credo che il lavoro avvenga sempre all’interno dell’individuo. E’ molto solitario, tranne rarissimi casi. E’ il confronto con se stessi quello che conta nel momento dello scrivere, come credo per qualsiasi creatività artistica. Poi la scrittura non è mai considerata artistica, se non nella poesia, ma è comunque un dato di emergenza personale. Quindi, non c’è tempo che cambi il modo di lavorare in questo senso. Può cambiare il modo della comunicazione, questo sì. E già gli editori lo hanno cambiato, forse neanche tanto in meglio. L’hanno semplicemente espanso, qualche volta a scapito della qualità.
Mi pare d’intuire che quando parla del mondo dell’editoria lei qualche consiglio l’avrebbe da dare…
Mi è successo di parlarne recentemente con una mia carissima amica che è stata a lungo ufficio stampa della mia casa editrice. Il nostro editore sosteneva che l’autore fosse il centro. Oggi credo che il centro sia l’editore. E questo forse non è esattamente il modo più alto di lavorare attorno alla scrittura.
Ph Claudio Argentiero (Afi)