Massimiliano Serati, coordinatore dell’Osservatorio Travel della Liuc di Castellanza, suggerisce di valorizzare i tesori spirituali locali con itinerari di nicchia, esperienze di meditazione, percorsi lontano dalla folla, ma proiettati in una dimensione culturale planetaria. Il tutto condito con relazionalità, socialità e forte contatto con le comunità locali
Nonostante i molti anni di studio dei fenomeni turistici, ogni volta che torno a “passeggiare nei parchi” del turismo religioso, mi accorgo di muovermi con passi lenti, molta curiosità e qualche cautela. Sì, perché, a fronte di numeri importanti, nel nostro Paese l’idea di un’offerta turistica integrata e sistemica in questo ambito è ancora neonata. Forse perché i turismi religiosi sono tanti e lo sforzo di codificarli spesso vano.
C’è un cuore pulsante: i viaggi verso le icone della fede, i pellegrinaggi verso mete sacre, le destinazioni del culto, che divengono destinazioni “cult”. Ma c’è anche il viaggio della fede più intimista, più raccolto, lontano dalle grandi mete, il turismo che percorre itinerari spirituali preziosi quanto interiori. E ci sono poi sensibilità che accolgono anche la dimensione artistica, paesaggistica, ambientale e culturale in senso ampio.
Nell’ambito della Borsa del Turismo Religioso Internazionale, tenutasi a Roma lo scorso giugno, si è parlato di un “futuro del turismo religioso al plurale”, alludendo a punti di contatto con sport, cicloturismo, trekking, enogastronomia e molto altro. Tutto ciò evoca questo turismo come veicolo per “destagionalizzare” e diversificare l’attrattività territoriale.
Bene, ma chi è allora il turista religioso? Un po’ di brezza ci aiuterà a sciogliere la nebbia nella quale si muove il turista bulimico, l’accumulatore seriale di fotografie, il collezionista di “post”, il tuttologo esperto di enogastronomia, così come di arte moderna, luoghi sacri o sport invernali. Costui ci piace: è curioso, viaggia, produce ricchezza, è sempre il benvenuto. Ma stiamo parlando di altro: di un turista colto, che viaggia lento, attento ai luoghi – siano essi creati dall’uomo o dalla natura – spesso sportivo e amante delle tradizioni. Raffinato, ma spartano. Non necessariamente credente, ma aperto al confronto, inclusivo e partecipativo.
Si dirà che in ogni territorio esistono gli ingredienti di base per intercettare questo profilo di visitatore: per restare a Varese e ai suoi fattori iconici, ecco il Sacro Monte del capoluogo, luogo di pellegrinaggio per antonomasia (pur senza sottovalutarne la dimensione artistica), ecco Santa Caterina del Sasso a Leggiuno – fattore spirituale, naturalistico-paesaggistico e storico a braccetto – ecco la Beata Vergine dei Miracoli di Saronno, con la loro straordinaria ricchezza artistica.
Con queste materie prime un bravo chef saprebbe preparare una preziosa leccornia. Ma per rendere unica la propria creazione aggiungerebbe alcuni tocchi personali. Senza dubbio qualche sapore misterioso e nascosto, uno di quelli che valorizza il tutto, per quanto pochi sappiano individuarlo: l’itinerario di nicchia, l’esperienza di meditazione, il percorso lontano dalla folla, ma proiettato in una dimensione culturale planetaria. Poi un contorno indispensabile: relazionalità, socialità e forte contatto con le comunità locali. Accompagnerebbe il tutto con un vino corposo, ma garbato: un’offerta ricettiva ricercata, ma sobria. Curata, ma non ostentata. Come è nella tradizione lombarda. E infine il servizio. Perché il turista religioso, lento, consapevole, eco-sensibile, non cerca soltanto luoghi e nemmeno esclusivamente esperienze: cerca qualità della vita, quel piacere di “tornare”, che non è diverso dal piacere di “stare” di tutti noi che qui abbiamo scelto di vivere.
Foto di Claudio Argentiero – Afi