Con la saggezza dei suoi 90 anni, il decano di Busto Arsizio firma una colta riflessione in vista della tanto auspicata fine della pandemia
di monsignor Claudio Livetti
La cultura della famiglia
La fine, speriamo non lontana, della pandemia ci porterà ad una situazione analoga a quella del 1945, fine della guerra. La famiglia allora ha vissuto la ricostruzione e il boom economico, che ha permesso di avere la televisione, tutti gli elettrodomestici, le automobili, il telefonino e il computer. Ha avuto tanto e, anche oggi, la speranza di molti è quella di “avere” tutto quello che c’era prima dello sconquasso economico prodotto dal Covid-19. Forse è meglio sperare anche di “essere”, essere migliori di prima, porre in atto la cultura della famiglia classica, collaudata nei secoli. Una coppia perennemente innamorata, fedele e stabile: i contratti di divorzio sono scritti con le lacrime dei figli. Una famiglia aperta alle altre, anche se la vita negli appartamenti non favorisce i contatti resi facili da quella che era la “cultura del cortile”. Una famiglia in cui il dialogo non è ucciso dai telefonini, bensì dove i genitori propongono e i figli discutono, ma seguono; in cui si vive la complementarità degli interventi: è tipico dei padri dettare le regole e delle madri organizzare le riparazioni. Una famiglia dal clima sereno, non invaso dai rumori dei media; dove c’è spazio per il sonno, riposo del corpo, e per la preghiera, riposo dello spirito; dove la gentilezza affettuosa si esprime, secondo i casi, con le parole suggerite da Papa Francesco: “permesso”, “grazie”, “scusa”.
La cultura della scuola
Dopo le interruzioni e la Dad dovrebbe riprendere in presenza, con gli insegnanti ovviamente vaccinati. Dev’essere una signora scuola, come quella elementare e professionale dei bisnonni, quella media superiore dei nonni e l’università dei genitori. Una scuola che abbia in cattedra non venditori di nozioni, ma figure culturalmente e umanamente significative. Quando ero giovane professorino, il preside mi ricordò: ”In cattedra non insegni soltanto ciò che sai, ma anche ciò che sei”. Una buona scuola propone non ciò che luccica, ma ciò che illumina e comunica la passione per la verità e la bellezza, quelle più alte, che si conquistano con la volontà e l’impegno, non con l’apatia o la superficialità che spinge all’arrembaggio di ciò che è effimero. Una signora scuola deve proporre ideali per tutta la vita. Seneca affermò: “La vita senza una meta non è un pellegrinaggio, ma un vagabondaggio”: Gli fa eco la canzone di Claudio Chieffo: “Cammina bene l’uomo quando sa dove andare”. I giovani d’oggi purtroppo sono figli dello zapping e la scuola deve guarirli da questa malattia pericolosa dei passaggi veloci e continui: si può procedere zigzagando, ma ci si chiude in corti orizzonti e non si arriva da nessuna parte!
La cultura della società
Noi oggi non siamo la punta più avanzata e luminosa nella storia dell’umanità. Il grande Zydmund Bauman, recentemente scomparso, ha affermato che la nostra società è vittima della “modernità liquida”. Una società spaesata, fluida, precaria, momentanea, sfaldata, in cui sono caduti gli orizzonti forti e si fa avanti una incertezza esistenziale. Siamo una società in crisi, ma non dobbiamo avere paura della crisi: “Nella crisi sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso, senza essere “superato”. L’unica crisi pericolosa è la tragedia di non voler lottare per superarla” (Albert Einstein). La nostra società oggi ha bisogno di guide veramente autorevoli sia ai livelli locali sia planetari, autorità non narcisiste, litigiose e particolariste. William Shakespeare disse: “La società va a rotoli quando un popolo di ciechi si fa guidare da un manipolo di folli”. Ma attendersi tutto da chi governa sarebbe puerile. La società perciò ha anche bisogno di cittadini con gli occhi aperti, non solo avidi di diritti individuali o nazionalisti, ma aperti alla mondialità e con la voglia non di vivacchiare, ma di vivere in pienezza e vivacità. La vita è un paracadute: se non lo apri ti schianti. È di grande attualità la sentenza di Oscar Wilde: “Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte delle persone esiste. Questo è tutto”. Esistere è un fatto, vivere è un’arte: occorre la cultura della vita.
In foto: Foto in fuga, Foto Club Inveruno dal progetto Mani di donna (ph Romina Pilotti)