Ripercorrendo lo storico rapporto tra tavola e pentagramma, il critico enogastronomico Jacopo Fontaneto ci spiega perché, il sabato sera, al suono distonico di una pizza con karaoke preferisca l’assonanza di un bel disco con una buona bottiglia. Un articolo senza “note stonate”, tutto da gustare…
“La musica con la cucina va a braccetto da secoli”
di Jacopo Fontaneto
Lo confesso: temo tantissimo quel “fidati, sabato sera andiamo in una pizzeria che conosco io” che squilla dal telefono degli amici. Per me suona come una minaccia. Ed è un suono distonico se, come nella maggioranza dei casi, il locale rivela la trappola: ovvero, accanto a una pizza il più delle volte mediocre, musica a palla con varia umanità impegnata in quel rito di tortura collettiva che si chiama karaoke. Visto con gli occhi del gastronomo, per carità. Perché come la musica la cucina è assonanza, armonia, concentrazione e quelle serate sono come un campo minato: alla prima stecca della “divina” di turno (altra stella incompresa che “fidati, se la ascolti è una che spacca, ma tu tanto non capisci niente di musica”) crolla tutto. Compresa la pizza, già traballante di suo.
Dai banchetti romani alla corte francese
Eppure la musica con la cucina va a braccetto, e ci è andata per secoli: dai banchetti romani all’apoteosi della corte francese, dove Jean Michel Delalande ha composto le sfarzose Symphonies pour les soupers du roi, che accompagnavano l’entrata in scena dei banchetti di Luigi XIV alla corte di Versailles. Suona l’orchestra anche nel Don Giovanni di Mozart, dove il tema gastronomico è possente, in un divertente connubio silenzioso tra la goduria libertina e quella del cibo: lì il cibo è tentazione pura, soprattutto quando “già la mensa è preparata” e il protagonista invita gli orchestrali da dare il la alla cena con il celebre: “Voi suonate, amici cari, già che spendo i miei danari, io mi voglio divertir”. Cena che si concluderà con il lugubre arrivo a mensa dell’oscura figura del Commendatore che porterà con sé Don Giovanni agli inferi.
Tra organo e bottega
Cibo e vino sono protagonisti nelle opere di Verdi, che arriva dalle Roncole di Busseto portando con sé la cultura del culatello e di un’infanzia divisa tra l’organo della parrocchia e la vicina bottega paterna che smerciava vino, liquori, caffè e generi alimentari. Oltre al potente, elefantiaco Libiam né lieti calici, Verdi infarcisce di pura gastronomia molte sue creazioni, dall’ambientazione del Falstaff alla tavola imbandita della Traviata, all’incipit di Otello in una taverna, fino al banchetto di Macbeth.
La cucina di Sant’Agata
“Il Verdi non è goloso, ma raffinato; la sua tavola è veramente amichevole, cioè magnifica e sapiente: la cucina di Sant’Agata meriterebbe l’onore delle scene” scrisse il librettista Giuseppe Giacosa. Soprattutto, era un buongustaio a tutto tondo, che nei frequenti viaggi tra Milano e l’Emilia sostava a Cremona si fermava a mangiare i marubini (la tipica pasta ripiena di laggiù) della cognata Barberina Strepponi, oppure recuperava i culatelli dalla tenuta dell’imponente Corte Pallavicina di Polesine Parmense, che aveva affidato a mezzadria e dove oggi i fratelli Spigaroli (con lo stellato Massimo in cucina), li producono ancora, compresi quelli che finiscono sulla tavola di Re Carlo III.
Compositori golosi
Tra gli altri compositori golosi è da ricordare sicuramente Gioachino Rossini, che la leggenda vuole inventore del tournedos declinato con il suo nome. Si racconta che fu il musicista a suggerire questa ricetta allo chef del Cafè Anglais di Parigi, dove pure frequentava gastronomi del calibro di Alexandre Dumas padre (che scrisse Le Grand Dictionnaire de Cuisine), Anthelme Brillat-Savarin e l’ex cuoco di corte Antonin Carême, a quel tempo a servizio della famiglia Rotschild – quest’ultimo gli dedicherà il famoso pasticcio di fagiano e tartufi e qualche altra golosa amenità: è certo, invece, che fosse ghiotto di Gorgonzola, al punto da farsene consegnare intere forme sempre alla sua residenza parigina.
Le ricette di De André
Gli esempi gastronomici nella storia della musica si sprecano fino a uno degli ultimi nomi immensi, quello di Fabrizio De André, che addirittura raccolse diverse ricette in un suo ricettario. Il sapore del mercato del pesce emerge nella sua Creuza de Ma: “E a ‘ste panse veue cose ghe daià – Cose da beive, cose da mangiä – Frittûa de pigneu giancu de Purtufin – Çervelle de bae ‘nt’u meximu vin -Lasagne da fiddià ai quattru tucchi – Paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi”, un pasticcio agrodolce dove la “lepre delle tegole” altro non è che il gatto, tante volte spacciato per coniglio nella storia dell’antica cucina povera e popolare.
Assonanze (stra)ordinarie
Capito perché, al sabato sera, quando posso metto su un bel disco a casa da ascoltare con una bottiglia di quelle buone? Senza bisogno di scomodare Rossini e il suo prediletto Château-Lafitte: mi accontento di molto meno.