Il critico enogastronomico Jacopo Fontaneto ricorda il ruolo storico dei banchetti nel quadro geopolitico
di Jacopo Fontaneto
L’interrogativo è aperto: la cucina può essere considerata arte? Due le scuole di pensiero, quanti considerano il cuoco un professionista, ovvero un artigiano, quanti invece considerano il preparare il cibo come un mezzo in grado di generare emozioni, ovvero un’arte al pari di musica e pittura. Secondo quest’ultima interpretazione, quella del cibo sarebbe l’arte più completa, perché vissuta con tutti e cinque sensi (sì, compreso l’udito) e, addirittura, assimilata da chi ne usufruisce nell’atto del mangiare, trasformandola in un tutt’uno.
Un’emozione bella… e buona!
Tuttavia, troppo spesso ci si ferma al considerare artistico il mero aspetto visuale del cibo, piuttosto che la sua sostanza, e un insieme di altri fattori-base nella critica gastronomica (l’equilibrio di un piatto, la creatività, il contrasto di consistenze, il cromatismo, la combinazione delle materie prime e molto altro). C’è anche una profonda differenza, anche sul piano storico, tra un modello francese più visivo e un modello italiano più materico: in questo sta anche l’errore di molti cuochi che, troppo spesso, si limitano a “disegnare” il contenuto di un piatto piuttosto che conferirgli un’identità e un senso. Il piatto di successo, che fa la differenza, è sempre più buono che bello, o comunque fa equivalere i due principi, in una completezza che suscita emozioni.
“Esercito” di piatti
Di certo, il riflesso artistico del cibo ha avuto una notevole importanza nella storia e nella geopolitica del tempo: dai sontuosi banchetti dell’antica Roma, alle moderne cene di Stato, passando per un ruolo di strategia diplomatica che la cucina assume nel passaggio chiave tra il Basso Medioevo e il Rinascimento. La tavola, in questo periodo, diventa il mezzo per stringere alleanze e ostentare ricchezza, giungendo a dissimulare una potenza (anche militare) molto più grande di quella effettiva.
Lo chef-star del tempo che fu
Emblematico è il caso di un cuoco di corte ingiustamente oggi poco noto, eppure da considerarsi come pietra miliare nella storia della cucina italiana: è Cristoforo di Messisbugo, cuoco, “sottospenditore ducale” e poi “provveditore” alla corte estense nella prima metà del Cinquecento. Era un autentico chef-star di un tempo in cui televisione e reality ancora non avevano confuso le idee sulle effettive dinamiche della cucina, e al contempo non avevano “abituato” l’opinione pubblica a un mondo del cibo piuttosto ricercato e fatto di materie importanti. Anche perché, ai tempi, il mangiar bene era un lusso per pochi e rappresentava un sogno per il cosiddetto popolo minuto, che si limitava a sognarlo attraverso miti e idealizzazioni come quelle del Paese di Cuccagna.
Il Paese della Cuccagna è servito
Ma torniamo a Ferrara e al Messisbugo, che fu così apprezzato, tanto da essere nominato conte palatino dall’imperatore Carlo V e chiamato come consulente dai Gonzaga di Mantova, quale cuoco di fiducia della duchessa Isabella d’Este: il piccolo ducato ferrarese, grazie a lui, riuscì ad approntare una strategia diplomatico-gastronomica e a stringere fortunate alleanza con tutti gli Stati ben più potenti che, a quel tempo, dominavano il frammentato scacchiere europeo: le sue cene erano leggendarie, con banchetti di oltre cento portate per cento e più ospiti, tramandati fino ai giorni nostri grazie ai suoi scritti e densi di specialità uniche e da lui inventate, come la salama da sugo o il pasticcio di maccheroni che ancor oggi costituiscono un simbolo della cucina ferrarese.
Una storica cena
Un esempio, la “cena di carne et pesce che fece lo Illustrissimo Signor Don Hercole, da Esti all’hora Duca di Sciatres, allo Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Duca di Ferrara suo padre; ed alla Illustrissima Madonna Marchesa di Mantova; et alla Illustrissima Madonna Renea sua mogliera, et al Reverendissimo Archiepiscopo di Melano, et allo Illustrissimo Signor Don Grancesco, ed ad uno Ambasciatori del Re Christianissimo, e a due Ambasciatori del Serenissimo Senato Vinitiano, et altri Gintil’homini et Gintildonne, così Ferrarese, come d’altro luoco, i quali tutti furono al numero di 104”. Era la cena del 23 gennaio 1529: in “sala grande di Corte colle coltrine grandi di ricamo” fu portata una successione di oltre 100 portate, intervallate da giocolieri, musici e cantori e seguita, per la successiva “collatione” del mattino, da un’altra corposa colazione.
Giù le mani dalle cucine!
Ovvio che, al netto di faide familiari, lo Stato estense visse un periodo di tranquillità in un secolo turbolento: nessuno osò attaccare le sue cucine e, in fondo, anche questa è arte. L’arte sottile della diplomazia e dell’usare, al meglio, tutte le risorse emozionali che il cibo può dare.