Intervista a Martin Kater, docente di Genetica del dipartimento di Bioscienze all’Università degli Studi di Milano, direttore dell’orto botanico di Brera e presidente della rete lombarda che riunisce questi speciali giardini
di Chiara Milani
“Gli orti botanici sono musei all’aria aperta”. Lo sottolinea con convinzione, il docente universitario Martin Kater, direttore del giardino di Brera e presidente della rete lombarda che riunisce questi speciali siti verdi. “Non tutti se lo aspettano, ma sono un luoghi di cultura e collezioni: sono musei in tutti gli aspetti, riconosciuti dalla Regione Lombardia, e sono molto importanti, perché da noi le piante sono come quadri in pinacoteca”, sottolinea con l’accento olandese che ancora lo contraddistingue, pur essendosi trasferito ormai da molti anni: “All’estero è più accettata l’idea di vedere questi posti come un bene culturale, mentre in Italia comincia a crescere ora l’idea che le piante, con la loro biodiversità, siano un bene da curare e collezionare”. Forse è per questo che, tra i 180-200 mila visitatori annuali dell’orto botanico di Brera, molti sono stranieri.
Dopo l’Expo 2015 sembra che l’interesse per la tematica alimentare legata alle piante sia rifiorita… o no?
Sì, è stato una grande spinta, sensibilizzando molto il pubblico. Noi, a Bergamo e Milano, in primavera riprendiamo un ciclo d’incontri chiamato Science cafè, dove invitiamo a discutere con gli esperti di scienze e argomenti legati all’alimentazione. Del resto, Brera è storicamente un luogo di educazione.
Le piante sono belle, ma sono pure indispensabili, per esempio – anche se non solo – per l’alimentazione…
Sì, sono fondamentali per la nostra vita sulla terra. Uno dei grandi problemi al mondo è proprio la produzione di cibo sufficiente per nutrire una popolazione in rapido aumento. Nel 2050 la previsione è di 10 miliardi di abitanti del pianeta: questa esplosione non riguarda la parte ricca del mondo, dove abbiamo da fronteggiare l’obesità, bensì la parte povera del pianeta, come l’Africa. Non possiamo mangiare meno qui e trasportare cibo lì: dobbiamo trovare la soluzione sul posto. Sennò, come la storia insegna, la fame innesta instabilità sociale e migrazione… il mondo della ricerca ha un forte obbligo di aiutare a trovare una soluzione per produrre più cibo, ma in modo sostenibile, perché non possiamo produrre di più usando più acqua, pesticidi e creando più inquinamento.
I suoi studi interessano anche il riso, con cui si nutre un terzo del pianeta e che è coltivato pure nel Nord Italia…
Quando parlavo 10 anni fa di aumentare la produzione per ettaro nessuno mi dava un euro, perché noi abbiamo sovrabbondanza e questo non era sull’agenda. Ma adesso il quadro è completamente cambiato, perché dobbiamo nutrire più bocche in modo sostenibile. Non è facile perché l’agricoltura aumenta produzione mondiale più o meno dell’1% all’anno, che non basta. Una delle strade che stiamo seguendo, in laboratorio, è produrre più riso: non possiamo risolvere il problema, ma proviamo a contribuire. Bisogna avere piante più resistenti. Oggi possiamo sequenziare il Dna, come per uomo, per studiare per esempio per la ramificazione delle infiorescenze.
Il tema è delicato…
Non è un approccio transgenico: si può fare selezionando mutanti nella natura, nelle specie selvatiche, visto che alcuni caratteri che sono stati persi con gli incroci che avvengono da 10mila anni. Il tempo stringe, dobbiamo avere una soluzione in 10 anni e il miglioramento delle piante è molto lento. Certo, c’è una resistenza nell’uso di nuove tecnologie, ma ciò che insegniamo negli orti botanici è per esempio far vedere come l’uomo, senza metodi transgenici hi-tech, ma soltanto cercando mutanti nella natura, ha storicamente creato ciò che mangiamo oggi. Prenda il pomodoro: quello selvatico è piccolo, giallo e quasi immangiabile, mentre noi li abbiamo buoni, grandi e rossi. Tanti pensano che il nostro cibo sia come quello che da sempre si trova in natura, ma molte specie selvatiche sono completamente diverse. Basti pensare che è stato eliminato il veleno da molte piante.
A proposito di pericoli: pare che attraverso l’aeroporto di Malpensa siano arrivati vegetali e insetti che fanno male alle nostre coltivazioni…
Sicuramente la mobilità mondiale ha creato l’arrivo di specie che non avevamo, con anche piante aliene invasive, che competono con le piante autoctone. Pensi che tanti vivai vendono piante che sono sulla nostra back list, perché magari sono molto belle, ma disperdono semi che rovinano i giardini.
Ma lei nel Varesotto è mai stato, visto che da anni abita a due passi da qui?
No, mi manca, ma so che è un territorio legato al verde e verrei volentieri, se mi invitassero.
In foto: Il biologo genetista Martin Kater