A tu per tu con GIorgio Fossa, Presidente del Gruppo 24 ore: l’analisi della crisi dell’editoria, un consiglio per Malpensa, ma anche un invito affinché “Univa sia il carro trainante di una formazione a 360 gradi di un territorio dove ormai la ripresa c’è stata, ma mancano gli uomini”. E poi l’annuncio: “La nostra azienda potrebbe traslocare da Gallarate”. Fino a un’inevitabile domanda sulla politica
di Chiara Milani
Negli ultimi vent’anni è stato al vertice di molti dei posti che contano: Confindustria, Sea, Fondimpresa, tanto per citarne alcuni. Ma non ha perso il legame con quella Gallarate dove ci accoglie nell’azienda di famiglia. Così, torniamo a incontrare Giorgio Fossa (nella foto di Claudio Argentiero, Afi), da 16 mesi tornato alla presidenza del Gruppo 24 Ore, dove già era stato al timone un paio di decenni fa.
Partiamo dall’editoria. Com’è cambiata l’informazione economica nell’epoca del digitale?
Sono tornato a Il Sole in una situazione molto complicata, che è decisamente in via di miglioramento, ma i problemi non sono risolti, perché rimane uno dei pochi settori in profonda crisi. Lo scorso anno c’era una legge che prevedeva un vantaggio fiscale sull’incremento di pubblicità, ma non sono stati fatti i decreti attuativi. Inoltre i grandi player sui social, come Fastweb e Google, drenano gran parte degli investimenti. La situazione invece non è cambiata in maniera così drammatica per i giornali di settore. Noi dobbiamo tornare, come stiamo facendo, a fare informazione specializzata.
Nonostante negli ultimi vent’anni abbia ricoperto diversi incarichi nazionali, lei ha mantenuto un legame forte con il nostro territorio. Che cosa servirebbe oggi secondo lei per il rilancio di Varesotto e Alto Milanese al tempo di Industry 4.0?
Io vivo di un’azienda che è nata a Gallarate e spero che rimanga qui anche nei prossimi anni. Anche se non è detto che non ci si debba spostare, perché se non si trovano aree per poter costruire o una collaborazione con il Comune – che vuol dire risposte in tempi stretti – è chiaro che un’azienda non può aspettare i cosiddetti tempi della politica italiana – che sono fuori dal mondo – perché ci metterebbero fuori dal mercato. Comunque, al di là di questo, sono molto legato al territorio. Del 4.0 si parla tanto: è importante, però guardate che è un mezzo, non è un fine. Per poterne approfittare al meglio serve quello che manca oggi: una formazione forte per tutti coloro che lavorano nell’azienda e soprattutto i prestatori d’opera. Lavori come l’operatore di macchine utensili sono di tutto rispetto, come lo chef. E danno grandi soddisfazioni, anche dal punto di vista economico. E questo lo dico perché per me Varesotto e Alto Milanese si sono già rilanciati. Una delle problematiche vere che io vedo nella provincia di Varese è che siamo tornati nel periodo in cui ci rubiamo un dipendente l’uno con l’altro: dobbiamo lavorare tutti assieme per crescere. Siccome siamo tante piccole e medie imprese, approfittiamo di associazioni importanti come l’Univa: può essere il carro trainante di una formazione veramente a 360 gradi. Sennò non andiamo da nessuna parte. Poi può esserci il 4.0, tutto quel che vuole, ma se non abbiamo i soldati, la guerra non si vince soltanto con i generali.
Lei è stato anche presidente di Sea. Il terminal 1 è stato inaugurato vent’anni fa. Malpensa è riuscita a recuperare quanto perso con il dehubbing, ma che cosa servirebbe oggi secondo lei per lo sviluppo dell’aeroporto?
Malpensa è una storia di successo, che purtroppo ha avuto un avviamento più lento del previsto perché questo Paese ha una compagnia di bandiera, se ancora si può definire tale, che ha fallito tutti i suoi programmi per tanti anni. Adesso finalmente sembra che, grazie ai commissari, sia diversa: speriamo che la politica non ricada nei vecchi errori. D’altra parte è vero che, con grande orgoglio, Malpensa è riuscita, nonostante il dehubbing, a crescere fortemente. Dopodiché, da esterno dico che l’attuale e, a mio giudizio, di buonissimo livello management di Sea dovrebbe guardare con molta attenzione a quello che può essere o un ritorno di Alitalia sui suoi passi su Malpensa oppure una realtà come Air Italy, con la Qatar finanziatrice, che possa essere l’alternativa vera di questo aeroporto. Perché è in un cuore pulsante dell’economia italiana e non può non avere una serie di collegamenti nazionali con il resto del mondo.
Questo è un momento particolare per la politica italiana. Sembrano servire più che mai doti di grande mediazione. Lei ha la reputazione di essere un grande mediatore, prima ai tempi di Confindustria, quando evitò la spaccatura interna arrivando alla presidenza, e poi tra Berlusconi e Bossi… Non l’ha chiamata nessuno in questo periodo?
(sorriso, ndr) Mi hanno chiamato in tanti per avere un consiglio, ma questo non c’entra. E’ vero che io ho doti di grande mediatore, però è anche vero che tutte le mediazioni hanno un limite: a un certo momento si chiude la cartella e si decide. Noi oggi abbiamo un Paese spaccato in due, che non può non considerare i Cinque stelle, che hanno preso più voti di tutti e che rappresentano metà Paese. Però c’è anche metà Paese, che è quello più produttivo e che tiene in piedi realmente l’Italia, che invece è in mano al centrodestra e in particolare alla Lega. Per cui, io dico che probabilmente non abbiamo alternative a un governo retto presumibilmente da persone terze, con magari alcuni ministeri in mano a figure importanti e super partes, ma che veda all’opera anche i Cinque stelle e la Lega. D’altronde siamo in un Paese democratico, in cui Salvini e Di Maio hanno vinto le elezioni. Bisogna che, a torto o a ragione, ce ne si faccia una ragione.
Nel suo curriculum il ruolo di ministro manca ancora…
(altro sorriso, ndr) Il ministro non l’ho fatto. Purtroppo è vero che sono un grande mediatore, ma soprattutto con il passare degli anni non sono molto paziente, e quindi non è un mestiere a cui ambisco. Se mi chiedono informazioni o consigli, sono sempre disposto a darli, ma non mi vedo in quella veste.