di Matteo Inzaghi
Il critico cinematografico Matteo Inzaghi recensisce Siccità, il film diretto da Paolo Virzì, vincitore a Venezia del Premio Pasinetti e candidato come Miglior film ai Nastri d’argento
La cronica e disperata mancanza di acqua diventa metafora di aridità umana e siccità emotiva
Da grande tessitore di racconti corali, Paolo Virzì cala il suo ultimo film in una Roma accecante e assetata, in cui la cronica e disperata mancanza di acqua diventa metafora di aridità umana e siccità emotiva.
Una girandola di personaggi
Come nel Capitale Umano (in parte girato a Varese), anche quest’ultima fatica del regista toscano sfodera una girandola di personaggi, alcuni legati tra loro, altri destinati all’incontro, altri ancora fisicamente prossimi ma distanti sul piano esistenziale.
Prigionia inconsapevole
Riprendendo alcune delle intuizioni scenografiche di Tutta la Vita Davanti, girato nelle spettrali periferie capitoline, l’autore alterna location desolate a celle sovraffollate, interni claustrofobici a lussuosi resort, appartamenti angusti a eleganti attici, intrecciando visivamente una carrellata di umanità (più o meno) inconsapevoli della propria prigionia.
Cortocircuiti fatali
Ciascun microcosmo vive la propria dimensione come se fosse l’unica esistente e qualunque confronto tra diverse appartenenze scatena cortocircuiti e conflitti, a volte fatali.
Il dazio pagato da Virzì
In tal senso, se c’è un dazio che Virzì, normalmente empatico quanto allergico alla retorica, in questo caso paga, è quello che rende didascalici alcuni spaccati. Ad esempio, la famiglia proprietaria del resort, inchiodata allo stereotipo, e il galeotto interpretato da Silvio Orlando, intelligentemente incapace di ritrovarsi al di fuori della cella, ma irrisolto nel rapporto coi ricordi, col rimorso e con la figlia, fugacemente rincontrata.
Troppa carne al fuoco
Come sempre efficace nel dominare i registri e linguaggi narrativi con cui passa abilmente dalla commedia di costume al dramma grottesco, Virzì mostra invece qualche incertezza di troppo nella critica sociale, mettendo troppa carne al fuoco e banalizzando all’estremo una (peraltro non necessaria) riflessione sui social, sui media, sull’informazione e sul fenomeno da talk.
Quegli scarafaggi (quasi) invisibili
Tornando al tema centrale del plot, vale a dire la Siccità, il film procede per simboli: gli scarafaggi, che invadono strade e case, sembrano essere ignorati dai più e notati solo da chi ha sviluppato una certa empatia, come se una parte della società fosse ormai assuefatta al degrado. La scenografia insiste su pareti, cancelli, divisori, utili a separare fisicamente le diverse comunità, nonché i quartieri e i ceti sociali, diventando barriere ancor più invalicabili delle mura carcerarie.
La misteriosa malattia
Poi c’è la misteriosa malattia che colpisce alcuni protagonisti, evidente riferimento al Covid, ma anche intrigante riflessione sulla necessità di rallentare la quotidianità cui siamo avvezzi. Non a caso, infatti, il virus provoca una sorta di narcosi, che evoca il filosofico sonno della Ragione.
Un diluvio rigenerante… ma non per tutti
Infine, la pioggia: liberatoria per alcuni, assolutoria per altri, foriera di ritorni, addii e riconciliazioni. Un diluvio rigenerante, ma anche prepotentemente catartico, del quale non ci è dato conoscere la durata. Ma che, presumibilmente, consentirà ad alcuni di salvare l’anima. Ad altri, di smarrirla per sempre.