L’eredità del ‘68

di Milani

Politica, costume, società. Gli strascichi del movimento giovanile planetario di mezzo secolo fa sono ancora ben visibili. Ne abbiamo parlato con il giornalista Toni Capuozzo, sessantottino d’eccezione, ospite in biblioteca a Busto Arsizio martedì 30 ottobre alle 21 in occasione del Festival del libro. “La Lega è stata il Sessantotto delle valli”

di Chiara Milani

“I sessantottini di allora sono i settantenni di oggi”. Inizia con una battuta, Toni Capuozzo, autore del libro Andare per i luoghi del ’68. “Non fu un’epopea. E quindi non vedrei un luogo con un monumento commemorativo”, chiarisce subito il giornalista: “Però fu un movimento eccezionale perché planetario. Come voi ben sapete a Varese, a quel tempo i confini erano una cosa tangibile. Il Sessantotto attraversò tutti i Paesi del mondo e entrò in quasi tutte la case italiane: chi andava alle assemblee veniva contestato dai genitori, chi voleva continuare a fare lezione si lamentava perché i picchetti glielo impedivano e non c’era famiglia di una ragazza in cui non si discutesse della lunghezza della gonna”.

A 50 anni di distanza, che cosa ha lasciato il Sessantotto?

Molto, nel bene e nel male. C’è una classe politica che, nonostante sia completamente rinnovata rispetto alla prima Repubblica, ricorda molto spesso persino nelle sedute parlamentari le assemblee del ’68: fiumi di parole e una certa inconcludenza, grandi progetti di trasformazione totale della nostra società che partoriscono topolini. Secondo me anche questa è un’onda lunga del Sessantotto. Se guardi la questione dell’immigrazione, vedi che le posizioni di principio sono totalizzanti: accoglienza per tutti o per nessuno. E’ molto difficile il pragmatico confronto con un fenomeno destinato a durare e che va governato, legalizzato, controllato, integrato. Il ’68, che pure ottenne cose importanti anche sul piano delle riforme scolastiche, ebbe tra i suoi grandi problemi questo suo velleitarismo totalizzante. Uno slogan era: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Una parte di questa mentalità sicuramente continua a caratterizzare la classe politica italiana.

Ciò dal punto di vista politico. E da quello sociale?

Molta della nostra odierna società è figlia del ‘68. Lo sono il divorzio e la chiusura dei manicomi. Per il costume fu un giro di boa. Paradossalmente la realtà ha poi in qualche modo tradito le attese, perché se è vero che c’è molta più libertà, dalle convivenze alle unioni civili, è anche vero che c’è molta più solitudine, rispetto al collettivismo forzoso delle comuni. Però va detto che a quei tempi l’Italia era un Paese che aveva trovato il benessere, ma era ancora arcaico dal punto di vista delle strutture familiari e del costume. Quindi era un fenomeno di cambiamento inevitabile.  

Possiamo dire che si è passati un po’ dalla protesta dei giovani di allora al rifiuto di quelli di oggi nei confronti di una classe dirigente formata in buona parte proprio da coloro che erano ragazzi nel ’68?

Sì. E’ vero che ogni generazione matura un suo modo di contestare. E’ ovvio che, se pensiamo a tutto un modo di rapportarsi con gli altri nel ’68, come i cortei che sono stati un riflesso istintivo per generazioni intere, e lo confrontiamo con i flash mob di oggi, c’è un oceano di mezzo. Oggi sono altri i luoghi di confronto: rete, chat, telefonino. Ma non ci si rivolge alla massa, conta di più la cerchia di amici.

Torniamo ai luoghi, di cui parli nel tuo libro. La provincia di Varese non è stata uno dei territori-simbolo del ‘68, in compenso qui è nata quella Lega Nord, oggi Lega, che pure è stato un movimento di rottura e che adesso è al Governo…

Se posso rispondere con una battuta, direi che la Lega è stato il ’68 delle valli. Nel senso che ha rappresentato una ventata di presa di coscienza identitaria, di rivolta contro una capitale e una politica che veniva sentita lontana. Dopodiché, l’ironia del destino ha voluto che buona parte della classe dirigente venga dal ’68, ma stia seduta dietro scrivanie belle lucide. E così c’è un po’ d’ironia nel fatto che la rivolta partita innanzitutto dalle valli approdi poi a Roma al potere, anche se con le difficoltà che vediamo. Però io trovo che siano dei percorsi diciamo biologicamente ovvi. Cioè ogni generazione, ogni movimento nasce con una carica totalizzante, poi se è fortunato accede alla possibilità di fare cambiamenti ed è obbligato a diventare un po’ riformista. Altrimenti, o fa la rivoluzione – cosa che per fortuna in Italia non è successa – o resta nell’angolo degli eterni delusi, dei sognatori.

Ph: Daniele Belosio

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