Ambrosetti, ieri e oggi

di Milani

Affondo su Di Maio, Italia e Unione europea. Il cavaliere che ha dato vita al celebre Forum di Cernobbio ci apre le porte di casa per sfogliare assieme il libro della sua vita, ma parla anche d’attualità e del territorio: “Perché un’azienda oggi dovrebbe investire da noi?”. Infine, ma non ultimo, una dichiarazione d’amore…

di Chiara Milani

The White House. 10 Downing Street. Il Presidente della Repubblica. E ancora: Ferrero, Barilla, Romiti. Soltanto per citarne alcuni. Basta leggere il nome dei mittenti delle lettere di ringraziamento che ha ricevuto, per sentirsi piccoli di fronte ad Alfredo Ambrosetti. Il cavaliere ci apre le porte di casa, nella Varese dove risiede da una vita, “anche se in realtà ero sempre in giro”, puntualizza con un sorriso. Ora che gli anni sono 88, finalmente lo si può trovare nell’abitazione di famiglia. E’ stata proprio la richiesta della moglie Lella e dei figli Chiara e Antonio che i suoi cinque nipoti sapessero chi fosse loro nonno direttamente dalle sue parole, a convincerlo a pubblicare la sua biografia, La mia storia, seguita dal secondo volume, Grazie. Ma dell’amore privato torneremo a parlare dopo. Ora, concentriamoci su quello per la sua professione. Iniziando dal fatto che i suoi due libri hanno lo stesso sottotitolo: “Tanto studio, tanto lavoro, tante innovazioni, grandi soddisfazioni”. Praticamente, il piano programmatico della sua vita. Chissà però se per un giovane oggi funzionerebbe come è successo per lui. Ce lo domandiamo, mentre lui sembra non aver dubbi a riguardo.

Nel mondo della politica via social media, secondo lei è ancora d’attualità il raduno dei poteri forti, come viene considerato il Forum di Cernobbio?

Trent’anni fa dicevano alla televisione che era finito. Non è mai stato in vita come adesso. Perché come dice Ferruccio de Bortoli, che ha scritto la prefazione della mia biografia, “costa tanto andare a Cernobbio costa tanto, ma costa molto di più non andare”. Perché là vengono i cervelli più importanti del mondo: capi di Stato, economisti, sociologi… Per me comunque l’aspetto più importante che ho inventato è l’aggiornamento permanente. L’unica sessione che si tenne a Varese fu la prima: a Villa Ponti, l’8 settembre 1973. Quando ci venne questa idea, i soloni della formazione dicevano che non avrebbe funzionato, perché non si possono scongelare i leader una volta al mese… invece quelli che andavano scongelati erano loro. Il forum fu poi una conseguenza.

Proprio alle nuove indicazione dell’Europa per l’apprendimento permanete VareseMese ha dedicato il primo piano in gennaio…

Noi avevamo una consulenza che si è sviluppata subito. Ogni tanto andavo a trovare i capi delle aziende. L’internazionalità incrementava, così come la complessità dei mercati: avevano sul tavolo la brochure di prestigiose università che promuovevano un corso all’estero, ma non avevano il tempo di stare via una settimana. Allora ho capito che quello che veniva offerto era sbagliatissimo. Anche perché l’uomo non è un cammello che ingoia per farlo durare a lungo. L’uomo digerisce e poi ha fame. Allora gli americani venivano volentieri in Italia, così come adesso. Noi invitavamo i migliori al mondo e venivano. Ho rovesciato la situazione su tutti i temi più importanti per un manager e loro venivano mese dopo mese, per anni. Siccome un generazione di conoscenze e competenze non dura più di 4-5 anni, le sessioni man mano permettevano l’aggiornamento. Io sono sempre sicuro di quello che penso ed ero sicuro che avrebbe funzionato. Ho inventato un magico 6: la mia segretaria che è da 50 anni con me, prendeva nota di chi aderiva e si creava l’effetto domino. Hanno aderito di colpo 450 capi d’azienda. Qui in Italia fiorì e mi venne in mente che secondo me non era stata inventata neanche negli Stati Uniti, che invece hanno sempre insegnato. Nell’85 vado a Los Angeles e comincio a far sondaggi e confermo che la mia intuizione è vero. La rivista più importante della California, New Management, mi chiede un’intervista e il giornalista, straordinariamente bravo, decide il titolo, perfetto: Lifelong learning. Poi partì a Londra, subito dopo a Madrid e Bilbao. In Italia facevamo tre sessioni ogni anno in ogni regione: scenario economico, socio-politico, e quello delle risorse, tecnologie, industria. Una sera su un treno mi è venuta un’illuminazione: questi scenari erano pieni di legami tra loro e così sono nati i tre giorni di Cernobbio. La prima volta fu un bagno di sangue, a causa della crisi di governo che aveva portato alla data scagliata. Andreatta quel giorno mi chiese di poter passare la serata con la mia famiglia, al Sacro Monte. Sotto un cielo stellato, mi si avvicinò e mi disse: posso farle una confidenza? Io non ho mai imparato tanto come in questi tre giorni. Questo mi diede coraggio. E presto arrivò la lista d’attesa.

Quali sono i fattori che lei ritiene strategici per la competitività delle piccole imprese italiane? Quelli legati alle tecnologie, di cui tanto oggi si parla, sono diventati più importanti di quelli legati al capitale umano o al management d’impresa?

Io ho fatto 100 patti di famiglia per quasi tutti le aziende più importanti d’Italia, perché ho intuito che senza regole le aziende familiari, che sono il vero patrimonio dell’economia italiana, sarebbero andate a rotoli. Quali sono i mali? Sono affette da familismo, che è come un cancro. Famiglia e azienda sono diametralmente opposte: la prima è il luogo della protezione e della solidarietà, dove dovrebbe regnare la pace, il secondo è il posto della competitività, del rischio e si è in guerra sempre. Nella successione non vanno distribuite le quote azionarie uguali per tutti, mettendo in difficoltà il leader, che è in minoranza. Poi, il presidente non è operativo e deve essere della famiglia, mentre l’amministrazione delegato deve essere il più bravo, anche con una selezione fuori. Inoltre, non c’è niente di peggio di obbligare all’unanimità per ogni decisione, che è la cosa più lontana dalla democrazia, perché basta uno contrario che blocca tutto. Non bisogna dimenticare che in famiglia si è parenti, in azienda si è soci.

Questa guerra di mercati tra Stati Uniti e Cina come rischia d’incidere sulla nostra competitività internazionale?

Ormai da diversi anni è subentrata la globalizzazione, che è una cosa dura, però irreversibile, perché è il frutto del progresso scientifico e tecnologico. Allora cosa capita? Quando una cultura è più predisposta ad agire nella globalizzazione, come la Cina, ha vantaggi enormi. Quando invece è meno predisposta, come noi, ha dei problemi enormi, come stiamo avendo. Chi dovrebbe andare allora a dirigere l’Italia? Non Di Maio, ma persone che abbiano un’indubbia competenza strategica di competizione internazionale. Noi andiamo a votare senza sapere il curriculum vitae. Poi il baricentro dell’attività economica si è spostato sempre più sull’asse Estremo Oriente-Stati Uniti. E lì l’Europa si è indebolita e subisce, perché solo un ignorante poteva definire le regole che ancor oggi contraddistinguono l’Unione Europea, dove la maggior parte delle decisioni è prevista all’unanimità, dopo aver messo dentro prematuramente un sacco di Paesi nuovi, quasi tutti dell’Est.

Dal mondo a qui: lei ha fatto consulenza per tanti leader aziendali e non solo, se dovesse farla per il nostro territorio, che consigli darebbe?

Questa domanda è fondamentale e vale per un’azienda, per un Comune, una Provincia, una Regione e per il Paese. Bisogna creare situazioni che diano una risposta convincente e positiva alla domanda: perché un’azienda dovrebbe investire da noi? Oggi tu hai gente che investe se dai loro vantaggi rispetto agli altri. Da noi non investono per la giustizia: l’Italia ha una reputazione negativa, perché non si sa chi ha ragione e chi ha torto, e quindi non vengono. Ci curiamo della reputazione di un individuo, di una famiglia, di un’impresa, ma nessuno si è mai preoccupato della reputazione del Paese, che è molto molto negativa. Perché uno studente dovrebbe decidere di studiare qui anziché altrove. Perché un contribuente dovrebbe decidere di contribuire qui anziché altrove? Ormai le barriere non ci sono più. Io a Villa d’Este una volta all’inizio delle tre giornate ho detto: attenzione, il business è mobile, va dove conviene di più.

E il fatto che tre laureati su quattro sognino di lasciare l’Italia?

Il problema non è un giovane che lascia l’Italia, perché se è dotato, fa fare gran bella figura al Paese. Quello che è fondamentale per il Paese è saper attrarre i migliori di qualsiasi nazionalità al mondo a fare il lavoro di ricerca eccetera. Anche gli italiani.

 

Fin qui ciò che possiamo riportare. Ciò che non troverete è il nostro ultimo scambio di battute, quando abbiamo chiesto al cavaliere qualcosa d’inedito. Lui, da gentiluomo qual è, ha risposto. Ma chi scrive ha promesso di mantenere il segreto.

Vi diremo invece come mai questa sia l’intervista della nostra rivista di febbraio. “Mia moglie Lella è stata la più grande fortuna della mia vita”, ci spiega, aggiungendo con un sorriso: “Ecco perché merito di stare in copertina in un numero dedicato all’amore”. Chapeau.

Foto: Alfredo Ambrosetti con la moglie Lella

Articoli Correlati